La scelta di usare i paraocchi per poter dire "abbiamo vinto" le elezioni e per perpetrare ingiustizie ai danni della causa palestinese
Negli ultimi giorni abbiamo assistito a dichiarazioni, smentite e contro-risposte da parte dei leader delle fazioni palestinesi in merito alle ultime elezioni e al futuro della Palestina. Tali vicende non sono altro che la cartina tornasole della disarmonia e delle divisioni che ormai caratterizzano la scena politica palestinese degli ultimi anni, celata da molteplici promesse di riconciliazione nazionale che in realtà - ormai è evidente - non rientra nei progetti di nessuno tra gli attori presenti nei piani alti del potere.
A partire dagli accordi di Oslo, e successivamente dall'esplicitarsi dell'Islam politico, si sono volutamente create delle sovrastrutture che hanno strumentalizzato l'occupazione, al fine di ottenere, chi per un verso chi per un altro, dei protettorati politici e di potere in qualche modo accettati, almeno per ora, dall'occupante sionista e dai suoi padrini. Questi meccanismi sono risultati logoranti per i palestinesi e soprattutto per la resistenza che questi ultimi sono legittimati ad attuare: l'evidenza vuole che vent'anni di dialoghi con l'occupante si siano tradotti nell'accettazione di condizioni di autentica sottomissione, portando gradualmente alla totale cancellazione dei diritti dei palestinesi.
Tale processo va avanti, e le ultime dichiarazioni del presidente Abu Mazen ne sono testimonianza: quello che dovrebbe essere il leader dei palestinesi è disposto a:
- cedere su uno dei diritti più importanti per il popolo palestinese, sancito dalla risoluzione ONU 194, ossia il diritto al ritorno;
- annullare completamente la resistenza popolare palestinese garantendo a 360° la sicurezza a colui che occupa la "sua" terra, a tal punto che si potrebbe identificare la nuova polizia palestinese con un'estensione naturale dell'esercito sionista.
Di questo processo fa anche parte il nuovo credito che sta riscuotendo Hamas a livello internazionale (si vedano, ad esempio, la visita dell'emiro del Qatar nella Striscia di Gaza nonché le ultime dichiarazioni di Erdogan), un meccanismo che vede l'ovvia approvazione dell'occupante (senza la quale tali dinamiche non potrebbero realizzarsi).
Citando una brillante analisi del dottor Wasim Dahmash, "i palestinesi sono stati trascinati sul terreno insidioso della spartizione e dell'esclusivismo - che è alla base della dottrina sionista - e chiamati a rispondere a questioni marginali volte a eludere il problema reale: quello dell'occupazione della loro terra, l'espulsione di gran parte di loro, la dispersione della società, la cancellazione della Palestina".
Dahmash parla di questioni marginali, ed infatti la leadership palestinese ha deciso ancora una volta di organizzare, sotto regime di occupazione, delle elezioni amministrative in Cisgiordania, boicottate da Hamas: da quanto avvenuto si può dedurre l'evidente impossibilità, almeno a breve termine, di creare un piano di riconciliazione nazionale tra le forze politiche palestinesi legata, va da sé, alla volontà di portare avanti, da parte di entrambe le parti, il progetto di "una propria" Palestina.
Da parte di Hamas, non presentarsi ha significato non mettersi in gioco a Gaza (lasciando quindi tutto com'è) e demandare all'ANP il controllo della West Bank. D'altro canto Fatah, che anch'esso non ha alcun interesse alla riconciliazione, ha "giocato" con queste elezioni sapendo di essere grosso modo l'unica forza in grado di potersi presentare con una campagna elettorale massiccia rispetto alle forze di sinistra, che indubbiamente non hanno lo stesso supporto economico (determinato anche dal clientelismo a cui portano certe politiche sociali determinate da Fatah).
Rispetto a queste ultime elezioni, inoltre, è facilmente comprensibile, analizzando gli stessi dati riportati dal segretario di Fatah in Italia (che elogia le vittorie e i successi del suo partito), come ci sia stata una risposta popolare che contrasta con il modus operandi sopra descritto. In primo luogo è del tutto contraddittorio sostenere la legittimità delle votazioni come un diritto dei palestinesi, sapendo che il mandato del presidente Abu Mazen è scaduto da quasi tre anni (oltre all'anno di proroga) e che non c'è alcuna intenzione di organizzare le elezioni presidenziali, quelle che realmente determinano chi rappresenta i palestinesi e i loro diritti. Di contro, scegliere di tenere delle elezioni amministrative, per eleggere i sindaci di città e villaggi occupati, è del tutto inappropriato.
Che l'unità non sia nei progetti politici è evidente, esplicitarlo è ai limiti dell'indecenza: "Fatah si trovava tra l'incudine e il martello: non farle [le elezioni] voleva dire correre dei rischi: essere per sempre prigionieri del ricatto di Hamas, tenere per sempre il vuoto politico-legislativo e privare i centri e i cittadini palestinesi di molti diritti e servizi necessari per i vari aspetti della vita quotidiana; organizzarle voleva dire correre altri rischi: confermare e approfondire le divisioni interpalestinesi". Dottor Salman, ma l'unione dei palestinesi non dovrebbe essere prioritaria in un percorso di liberazione per l'autodeterminazione del popolo palestinese?
A quali prospettive, a quali reali progetti di liberazione pensano i dirigenti di Fatah? Li esplicitino, perché sfuggono a chiunque sia schierato dalla parte del popolo palestinese.
"La lista di Fatah capeggiata dalla professoressa Vera Baboun, ottenendo 10 seggi su 15, ha strappato il Comune di Betlemme al Fronte popolare (2 seggi). A Hebron, roccaforte degli islamisti, Fatah ha strappato il Comune (9 seggi), contro gli indipendenti appoggiati dagli islamisti e le sinistre (6 seggi). Il segnale più triste di questa tornata elettorale è il fallimento delle organizzazioni della sinistra palestinese (il Fronte Popolare a Jenin zero seggi, un seggio a Nablus e 2 a Betlemme). La sinistra palestinese ha perso un'occasione: non ha saputo sfruttare questi tempi di crisi fra Fatah e Hamas per crescere e rappresentare un peso e una speranza nel mondo palestinese. Ma evidentemente non hanno convinto il popolo palestinese." Dichiarazioni come queste aiutano la realizzazione del processo per l'unità? Il caso di Hebron, inoltre, avvalora l'esatto contrario di quanto sostenuto: il dato sull'affluenza è una sconfitta piena che non dovrebbe dare a nessuno il diritto di potersi proclamare vincitore delle elezioni - si tratterebbe di una grave irresponsabilità - in una città in cui 2 abitanti su 3 hanno scelto di non andare a votare.
La presunzione usata nel non tenere conto di questi forti messaggi dati dalla popolazione è un chiaro segno di come gli interessi non siano quelli popolari ma quelli personali, di poltrona. Un altro esempio del chiaro disinteresse delle richieste che arrivano dal basso riguarda l'incontro organizzato tra Abu Mazen e il vice premier israeliano Shaul Mofaz lo scorso giugno, poi annullato grazie alle manifestazioni popolari palestinesi che chiedevano al presidente di non incontrare il nemico occupante. Nonostante questa forte risposta della popolazione scesa in piazza, Abu Mazen ha organizzato un altro incontro con chi occupa la sua terra e uccide la sua gente, ribadendo l'intenzione di proseguire con la politica dei negoziati e, peggio ancora, esplicitando quale dovrà essere l'iter dell'ANP, per arrivare, come citato in precedenza, alla riapertura del tavolo dei trattati con Israele.
Ancora di più, ritrattare in maniera sterile una dichiarazione in merito a ciò che il presidente era disposto a "cedere" pur di riaprire le trattative è stupido, sapendo che non c'è alternativa alla rinuncia del diritto al ritorno per i profughi palestinesi, considerando che non è contemplato dalla potenza occupante.
I vari comunicati stampa in difesa dell'ANP che verrebbe delegittimato dai media sono assurdi e privi di consistenza: sono gli stessi leader dell'ANP a delegittimare se stessi contraddicendosi sui loro piani di azione. Da una parte, infatti, c'è tutto l'interesse a sedersi al tavolo con Israele (che non ha mai voluto avere "uno stato per i palestinesi" nella sua agenda politica), dall'altra si inneggia con parole del tutto vuote al diritto al ritorno, alla libertà e allo stato per i palestinesi.
Sostenere, come giustizia richiede, che il diritto al ritorno non è negoziabile, significa rinunciare a trattare con Israele continuando a chiedere l'applicazione del diritto internazionale; riconoscere il regime di occupazione significa non annoverarsi alcun diritto di determinare la scelta delle forme di resistenza popolare.
Annunciare a un popolo che da oltre sessant'anni vive sotto occupazione, che "finché ci sarò io al potere non ci sarà alcuna intifada, non si tornerà al terrorismo" significa correre il rischio di richiamare un'intifada contro questo nuovo potere che, come l'altro ed insieme all'altro, etichetta la resistenza come terrorista, dimenticandosi che terrorista è colui che occupa una terra, reprime un popolo e continua a violare le oltre settanta risoluzioni ONU a suo carico.
"Il governo israeliano e la leadership dell'OLP [sono] preoccupati entrambi dalla crescente capacità di mobilitazione della popolazione e dall'emergere nei territori occupati di figure di leader giovani non controllati dall'organizzazione palestinese. [...] Il timore della dirigenza palestinese di perdere prestigio, cioè spazio politico, o per dirla più chiaramente, potere, l'ha spinta a firmare il riconoscimento della legittimità dello Stato "per gli ebrei" in cambio della promessa di un regime d'autonomia in un non ben precisato spazio territoriale".
Solo partendo da questa chiara analisi di W. Dahmash possiamo comprendere le dinamiche palestinesi e lavorare veramente, assieme ai palestinesi, per una Palestina libera, unita ed autodeterminata.
Redazione PalestinaRossa