I fatti sono noti: il 21 ottobre 2015 la comunità ebraica ha organizzato una manifestazione di solidarietà con la “popolazione israeliana sotto attacco”. Testualmente su “Mosaico”, sito della comunità, si parla di “ondata di odio antiebraico in Medio Oriente”; si va oltre: i confini sono estesi a tutto il M.O. e l’odio non è “antisraeliano” ma “antiebraico”. La questione viene posta subito in termini religiosi/etnici e non politici.
La comunità, che pretende di parlare a nome di tutti gli ebrei, fa il suo lavoro di sostegno al sionismo ed intona la litania del vittimismo. Del resto la situazione si presta. Gli ebrei rivendicano l’esclusiva sulla figura della vittima, almeno quando si parla di genocidio. Non a caso si vuole introdurre il reato di negazionismo. Un rabbino, in questi giorni, pur proponendo di affiancare anche l’eccidio degli armeni nel testo di legge, ha però ribadito l’unicità della Shoà: come se, proprio per le condizioni estreme che lo consentono, non avesse ogni genocidio la sua unicità. Ma gli ebrei sono vittime sempre e “di più”. Anche quando sono aggressori. In fin dei conti basta operare una cesura nella filiera causa/effetto. I palestinesi uccisi o feriti sono molto di più delle vittime israeliane ma poco importa. Come poco importa il motivo reale delle aggressioni da parte dei palestinesi. Il motivo può e deve essere uno solo: l’odio antiebraico, l’antisemitismo.