Palestina

Doha. Il Consiglio dei ministri della Cultura del Mondo Islamico, riunitosi martedì a Doha, ha scelto la città palestinese di Hebron/al-Khalil come capitale della cultura islamica per l’anno 2026.

Il ministro della Cultura Atef Abu Saif ha dichiarato che Hebron è stata nominata per far luce sui tentativi israeliani di ebraicizzare la città, rubarne il patrimonio e le antichità e cambiarne l’identità arabo-islamica.

Ha affermato che nominare Hebron capitale della cultura islamica per il 2026 è di grande importanza perché significa che il mondo islamico concentrerà i propri sforzi sul lavoro culturale a Hebron con programmi, piani e visioni volti a rafforzarne l’identità islamica alla luce dei tentativi israeliani di cambiare il suo carattere di città araba e islamica.

“Abbiamo la grande responsabilità di presentare ciò che sta accadendo a Hebron al mondo islamico per trasmettere un messaggio chiaro: preservare i luoghi santi richiede uno sforzo da parte di tutti noi e interventi forti per preservare l’identità palestinese in questa città”, ha affermato il ministro della Cultura.

Gerusalemme è stata la capitale della cultura islamica nel 2019 e la capitale della cultura araba nel 2009, e Betlemme è stata la capitale della cultura araba nel 2020.

(Fonti: Wafa, Quds Press e PIC).

Muhammad al-Najjar experienced trauma from an early age.

Beirut. I rifugiati palestinesi in Libano hanno tenuto lunedì una protesta davanti all’ambasciata olandese a Beirut, chiedendo ad Amsterdam di rilasciare l’attivista umanitario Amin Abu Rashed, presidente della “European Palestinian Conference”, come riporta Quds Press.

Abu Rashed, di nazionalità palestinese-olandese, è detenuto dopo una campagna condotta dal gruppo israeliano Ad Kan in Olanda.

I rifugiati, che reggevano delle foto di Abu Rashed, hanno detto che i suoi sforzi umanitari hanno contribuito ad alleviare le loro sofferenze nel corso degli anni, ventre vivevano in condizioni economiche difficili.

Secondo Quds Press, i rifugiati hanno consegnato una lettera all’ambasciatore olandese in Libano, invitandolo a spingere il suo governo a rilasciare Abu Rashed. Hanno ribadito che tra le attività di Abu Rashed c’è la raccolta di fondi per programmi di assistenza ad orfani, anziani, disabili, studenti e pazienti che non hanno fondi sufficienti per coprire i costi delle cure e alle vedove.

Sotto istigazione del gruppo sionista Ad Kan, le autorità olandesi hanno arrestato Abu Rashed accusandolo di raccogliere fondi per programmi realizzati da organizzazioni legate a Hamas.

Martedì sera, il tribunale di Rotterdam, in Olanda, ha deciso di prorogare la detenzione di Abu Rashed fino al 7 dicembre 2023.

Lo scorso agosto, l’avvocato di Abu Rashed ha negato le accuse della procura olandese secondo cui sarebbe stato coinvolto nel trasferimento di 5,5 milioni di euro (5,95 milioni di dollari) al Movimento di resistenza islamica “Hamas”.

Ha sottolineato che non esiste alcuna prova legale per l’arresto di Abu Rashed, che è stato effettuato in risposta a richieste di Israele, sottolineando che la procura olandese si è basata su rapporti parziali, senza una chiara giustificazione legale.

(Fonti: Quds Press, Quds Press, PIC e MEMO).

Cisgiordania. Martedì pomeriggio, combattenti della resistenza palestinese hanno effettuato due operazioni armate contro una postazione militare israeliana vicino alla città di Tulkarem e contro un’auto di coloni vicino a Gerico, nella Cisgiordania occupata.

In una breve dichiarazione, l’esercito di occupazione israeliano ha affermato che una delle sue postazioni militari vicino a Tulkarem è stata colpita dal fuoco di uomini armati palestinesi, aggiungendo che nessuno dei suoi soldati è rimasto ferito nell’attacco.

A Gerico, i media ebraici hanno affermato che i palestinesi hanno aperto il fuoco contro un’auto israeliana che viaggiava su una strada vicino al villaggio di al-Jiftlik.

Hanno aggiunto che la donna che guidava l’auto è sopravvissuta alla sparatoria.

Da parte sua, un portavoce dell’esercito israeliano ha detto che l’auto israeliana è stata colpita dal fuoco di un veicolo in corsa vicino all’incrocio di al-Hamra, nella Valle del Giordano.

(Fonti: PIC e Quds Press).

Gerusalemme/al-Quds. Sheikh Raed Salah, presidente del Movimento islamico nella Palestina occupata del 1948 (Israele) e del Comitato per la diffusione della pace, un ramo dell’Alto comitato di controllo per la comunità araba, ha chiesto lunedì di salvare la moschea di al-Aqsa dalle continue aggressioni israeliane.

Ha invitato i palestinesi a visitarla, a pregare e a rimanere al suo interno per difenderla dalle forze israeliane e dalle violazioni dei coloni.

In un discorso pronunciato in occasione del compleanno del profeta Muhammad, ha dichiarato: “Ogni singola pietra della moschea di al-Aqsa è dedicata al Profeta Muhammad”, e ha esortato i musulmani a seguire le orme del profeta che ha guidato una preghiera nella moschea.

Ha, inoltre, affermato che “ogni centimetro della moschea di al-Aqsa sta soffrendo a causa dell’occupazione israeliana”, sottolineando che i fedeli, uomini e donne, vengono picchiati e costretti ad uscire.

Sheikh Salah ha invitato tutti i musulmani e le persone libere del mondo a difendere la moschea di al-Aqsa e a impedire alle forze sioniste e ai coloni di invaderla.

(Fonte: MEMO e PIC).

Cisgiordania. Secondo il rapporto ONU pubblicato  lunedì, la violenza dei coloni israeliani ha provocato, dal 2022, il trasferimento (deportazione) di oltre 1.100 Palestinesi nella Cisgiordania occupata.

Il rapporto ha documentato circa tre attacchi al giorno legati ai coloni in Cisgiordania, la media giornaliera più alta da quando, nel 2006, l’ONU ha iniziato a documentare la tendenza. La violenza ha completamente svuotato cinque comunità palestinesi. Altre sei hanno visto andarsene la metà dei loro abitanti, e sette ne hanno visto fuggire un quarto, dice il rapporto.

Nello stesso periodo, 1.614 attacchi legati ai coloni hanno provocato vittime palestinesi o danni alle proprietà: una media di 80 attacchi al mese, il numero più alto mai documentato dall’ONU da quando è iniziato il suo monitoraggio.

Mentre gli insediamenti israeliani si espandono sotto il governo di estrema destra di Benjamin Netanyahu, i Palestinesi affermano che la violenza da parte dei coloni israeliani ha raggiunto il culmine.

Questo, insieme all’impossibilità dei Palestinesi di ottenere autorizzazioni per costruire, alle demolizioni, agli sfratti, alle restrizioni del movimento e alla continua espansione degli insediamenti, crea un ambiente coercitivo che contribuisce allo spostamento che può equivalere a un trasferimento forzato-deportazione, una grave violazione della Quarta Convenzione di Ginevra.

Il rapporto afferma che i pastori palestinesi hanno bisogno di sostegno per il sostentamento, anche per nutrire e proteggere le loro mandrie, e di assistenza umanitaria per soddisfare i bisogni primari di ricovero, cibo, acqua, istruzione e assistenza sanitaria.

(Fonte: PIC).

Traduzione per InfoPal di Edy Meroli

Gaza. Il ministero della Sanità di Gaza ha reso noto, martedì sera, che 11 giovani palestinesi sono stati feriti dai proiettili delle forze di occupazione israeliane (IOF), e altri sono rimasti asfissiati dai gas lacrimogeni, durante marce pacifiche nella Striscia di Gaza orientale.

Le manifestazioni giornaliere sono a sostegno della Moschea di Al-Aqsa e della resistenza nella Cisgiordania occupata.

Testimoni hanno riferito che i soldati dell’occupazione “hanno sparato lacrimogeni velenosi contro decine di ragazzi e giovani che manifestavano vicino al muro di separazione a est della città di Gaza, provocando il soffocamento di molti di loro”.

(Fonte: Quds Press).

Gaza. Martedì sera, aerei israeliani hanno bombardato punti di osservazione appartenenti alla resistenza palestinese a est di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, e altri nella città di Gaza e a Jabalia, nel nord.

Fonti locali riferiscono che un aereo israeliano ha bombardato con due missili un punto di osservazione militare appartenente alle forze “Hama al-Taghuri”, a est di Rafah, senza provocare vittime.

Il portavoce dell’esercito di occupazione ha dichiarato, in un breve comunicato: “Un drone dell’esercito ha attaccato un sito militare di Hamas, situato nella zona di Rafah, dove si stanno verificando scontri violenti vicino alla recinzione di confine della Striscia di Gaza”.

In un’altra dichiarazione ha indicato che l’esercito israeliano ha utilizzato un elicottero da combattimento e un carro armato durante un attacco contro “altri due siti militari di Hamas” a Gaza.

Oggi, centinaia di giovani hanno partecipato a manifestazioni di protesta vicino alla recinzione che separa la Striscia di Gaza dai Territori palestinesi occupati nel 1948 (Israele), a Gaza e Rafah.

Il ministero della Sanità di Gaza ha annunciato che 11 giovani sono stati feriti dai proiettili dell’occupazione durante gli scontri nella Striscia di Gaza orientale, oltre a decine rimasti asfissiati.

(Fonte: Quds Press).

Gaza – The Electronic Intifada. Negli ultimi due anni, Samar Ziada, 27 anni, è stata infermiera volontaria all’ospedale al-Shifa di Gaza.

Assiste le infermiere dello staff nelle loro attività quotidiane: preparare le iniezioni per i pazienti, curare le ferite e prendere la temperatura.

L’ospedale al-Shifa è noto per essere un luogo di lavoro stressante. È a corto di personale e manca di attrezzature mediche molto necessarie a causa del blocco israeliano di 16 anni sulla Striscia di Gaza.

Ziada lavora tre giorni alla settimana, otto ore al giorno, ma non viene pagata.

Non è riuscita a trovare un lavoro retribuito come infermiera da quando si è laureata in infermieristica all’Università di al-Azhar, nel 2018. Ci sono troppe infermiere a Gaza e troppo poche posizioni retribuite disponibili. Ogni anno, quando Ziada fa domanda per nuovi posti di lavoro come infermiera presso ospedali governativi o privati, scopre di essere una delle centinaia di candidati.

La situazione è così grave che, a luglio, l’Associazione infermieristica palestinese della Striscia di Gaza ha rilasciato una dichiarazione in cui esprimeva la sua preoccupazione per le prospettive di impiego degli infermieri.

Attualmente ci sono 14.200 infermieri registrati a Gaza, ma solo 4 mila sono impiegati come tali, mentre 10.200 non lavorano nel loro campo.

Il numero di laureati in infermieristica ha superato i posti di lavoro disponibili, ha aggiunto la dichiarazione, poiché le istituzioni pubbliche non possono permettersi di assumere altri infermieri, nonostante ne abbiano bisogno.

Ziada ha accettato la posizione di volontario sperando che portasse a un lavoro vero e proprio, ma finora non è stato così.

Non studiare infermieristica.

Un tempo l’infermieristica era considerata un percorso di carriera affidabile a Gaza. Si pensava che, nonostante l’alto tasso di disoccupazione di Gaza, la Striscia avrebbe sempre avuto bisogno di infermieri.

Eppure Hasan Hilles, 30 anni, ora rimpiange di aver studiato infermieristica. Si è laureato nel 2016 in infermieristica presso l’Università islamica di Gaza.

Ha lavorato un anno in una clinica privata, con un basso stipendio mensile di circa 235 dollari. Era il lavoro migliore che potesse trovare. Tutti i lavori meglio retribuiti, ha detto, richiedono connessioni o conoscenze.

Hilles non è rimasto sorpreso dalla dichiarazione dell’Associazione infermieristica palestinese. Ora mette in guardia gli amici dallo studiare infermieristica, visto che le opportunità di lavoro sono così scarse.

Anche se continua a fare domanda di lavoro come infermiere circa cinque volte all’anno, ha lavorato soprattutto nell’edilizia.

Un anno fa, mentre si trovava in un cantiere, un collega si è ferito alla testa ed è crollato a terra. Hilles è andato ad assisterlo e a controllare che non ci fossero lesioni, ma il suo collega gli ha detto di chiamare un paramedico. Quando Hilles ha spiegato di essere un infermiere, il collega non gli ha creduto finché non gli ha fasciato con perizia la ferita.

Ha anche provato a fare il volontario.

“Ho fatto il volontario in un ospedale pubblico per un anno e mezzo”, ha detto, ma non ha trovato lavoro.

Un sistema in crisi.

Il sistema sanitario di Gaza sta affrontando numerose crisi. Gli ospedali non dispongono di medicinali e attrezzature mediche adeguate per ogni giorno. Eppure le loro operazioni quotidiane sono tutt’altro che normali, poiché infermieri e medici devono spesso trattare i feriti e i moribondi a seguito degli attacchi militari israeliani.

Muhammad al-Kafarna, ex-presidente dell’Associazione infermieristica palestinese, che difende i diritti degli infermieri, è allarmato dal numero di infermieri disoccupati.

Ha detto che ogni anno si aprono solo 120 posti di lavoro per infermieri, mentre a Gaza ci sono 5 mila studenti di infermieristica.

I 22 ospedali privati di Gaza assorbono molti dei nuovi infermieri, ma i laureati preferirebbero lavorare in uno dei 13 ospedali pubblici di Gaza, gestiti dal ministero della Salute, con stipendi migliori.

Teme per il futuro dell’assistenza infermieristica a Gaza, soprattutto perché molti neolaureati stanno pensando di trasferirsi all’estero per trovare lavoro.

Himam Saeed, 32 anni, si è recato ad agosto nella città di al-Ain, negli Emirati Arabi Uniti, per fare un colloquio in un ospedale privato.

Si è laureato in infermieristica a Gaza nel 2014, ma trovare lavoro è stata una lotta. Dal 2018 al 2019, ha fatto volontariato presso l’ospedale indonesiano di Gaza e poi ha lavorato come infermiere in prima linea durante la serie di proteste della “Grande Marcia del Ritorno”, trattando le persone colpite e ferite dai soldati israeliani.

Come molti altri, pensava che sarebbe arrivato in seguito un lavoro retribuito. Quando non è stato così, ha lavorato per sei mesi per un ente di beneficenza, ma ha lasciato l’incarico per mancanza di fondi.

Saeed ha menzionato altri amici universitari che hanno lasciato Gaza per luoghi come l’Egitto e la Turchia. Molti di loro hanno raggiunto la Grecia dalla Turchia, con un gommone o a nuoto. Per Saeed questa non era un’opzione, poiché conosceva persone che sono morte durante quel viaggio verso la Grecia.

“Amo il lavoro umanitario e a Gaza abbiamo fatto una buona esperienza”, ha detto. Tuttavia, poiché vuole un futuro migliore, ha deciso di rimanere negli Emirati Arabi Uniti.

Come Saeed, Samar Ziada, volontaria ad al-Shifa, considera l’assistenza infermieristica un lavoro umanitario. Non vuole fare nessun altro tipo di lavoro e continuerà a fare domanda di lavoro come infermiera. A questo punto, non le sembra possibile trovare un’altra carriera, visto che suo padre ha chiesto un prestito per farle studiare infermieristica.

Ola Mousa è un’artista e scrittrice di Gaza.

Traduzione per InfoPal di F.L.

Progetto di cooperazione internazionale a supporto della comunità palestinese nei campi profughi in Libano.

Il progetto si chiama Music and Resilience e si occupa di community music, musicoterapia e attività psicosociali in musica. È nato nel 2013, ed è attivo in diversi campi del Libano: Al Jalil (Baalbek); Beddawi (Tripoli); Ein El-Hilweh (Saida); Shatila e Burji Baraji (Beirut con l’orchestra Al Kamandjati).

In allegato trovate una breve presentazione con alcune foto.

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Palestinian International Cooperation Agency

Ramallah. Il numero di palestinesi uccisi dall’uragano che ha colpito la Libia orientale è salito a 64, secondo una dichiarazione ufficiale del ministero degli Affari esteri e degli Espatriati.

Il consigliere politico del ministro degli Affari esteri e degli Espatri, l’ambasciatore Ahmed al-Deek, ha affermato in una dichiarazione rilasciata dal Ministero che, sotto la guida del presidente Mahmoud Abbas e del primo ministro Muhammad Shtayyeh, e le istruzioni del ministro degli Affari esteri e degli Espatri Riyad al-Maliki, il Ministero sta seguendo le condizioni della comunità palestinese nelle aree colpite dall’uragano in Libia, per determinare l’entità delle sofferenze e dei grandi danni che l’hanno colpita.

(Fonte: WAFA).

Qalandiya – The Palestine Chronicle. Di Tamar Fleishman. La donna palestinese era su una barella.

Sembrava indifesa, immobile, riparata da coperte fino al collo.

Tutto il suo corpo era legato alla vecchia barella. Sembrava scollegata da ciò che la circondava: una malattia che sta divorando il suo corpo all’interno e soldati israeliani armati che abbaiano ordini e le negano la libertà all’esterno.

Questa era la scena al checkpoint militare di Qalandiya, che separa Ramallah da Gerusalemme.

Continuavo a guardarla. “Questa è una paziente malata di cancro”, mi ha detto il paramedico palestinese.

Era una giornata molto calda. Il sole era impietoso. Ma il volto della donna era così pallido, come se fosse scolpito nel ghiaccio.

La madre della paziente si è avvicinata lentamente ai soldati israeliani per mostrare loro i documenti di identità e di transito che aveva preparato con cura.

Ha aperto intuitivamente le sue borse, per dimostrare ai soldati che né lei né la figlia stavano trasportando nulla di “pericoloso”.

A Qalandiya, nessuno viene risparmiato dalla lunga attesa, dall’umiliazione o dalle irragionevoli aspettative dei militari, nemmeno i malati terminali, che cercano disperatamente di raggiungere un ospedale al di là del muro dell’Apartheid israeliano.

E solo le donne sono autorizzate ad accompagnare i familiari malati. Padri, mariti e fratelli non sono ammessi, perché il cosiddetto sistema di “sicurezza” israeliano considera ogni maschio palestinese un “terrorista” o, nella migliore delle ipotesi, un potenziale “terrorista”.

Ho pensato a tutti questi pazienti che sono morti attraverso i checkpoint e i muri, senza dire addio ai loro cari.

Questo è razzismo al lavoro.

L’anziana madre continuava ad estrarre nervosamente altri documenti, mentre sua figlia rimaneva sulla barella, con il suo destino che veniva determinato da giovani soldati israeliani armati.

Traduzione per InfoPal di F.H.L.

Mosca. Gli Stati Uniti stanno facendo tutto il possibile per impedire la creazione di uno Stato palestinese, ha dichiarato il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov alla 78ª sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Ha aggiunto che la piena normalizzazione in Medio Oriente non può essere raggiunta senza risolvere la questione principale, ovvero il conflitto israelo-palestinese, sulla base delle risoluzioni delle Nazioni Unite e dell’Iniziativa di pace araba.

Lavrov ha affermato che i palestinesi attendono di avere un proprio Stato da oltre 70 anni, ma gli statunitensi hanno monopolizzato il processo di mediazione e stanno facendo di tutto per impedirne la sua creazione.

Ha poi invitato tutti i Paesi responsabili a unificare gli sforzi per creare le condizioni per la ripresa dei negoziati diretti israelo-palestinesi.

“Ciò che mette a nudo l’egoismo della minoranza occidentale sono i tentativi invadenti di “ucrainizzare” l’agenda delle discussioni internazionali e di far passare in secondo piano una serie di crisi regionali irrisolte, molte delle quali si trascinano da anni e persino da decenni”, ha dichiarato Lavrov, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa russa TASS.

(Fonte: MEMO).

Traduzione per InfoPal di F.L.

Cisgiordania. Domenica, le forze israeliane (IOF) hanno ordinato la cessazione della costruzione di 17 case e strutture palestinesi nel villaggio di Sarta, a ovest della città di Salfit, nel nord della Cisgiordania occupata.

Il capo del Consiglio di Sarta, Ibrahim al-Khatib, ha dichiarato in un comunicato che le IOF hanno fatto irruzione nel villaggio e hanno consegnato ai cittadini avvisi per fermare i lavori e la costruzione di 17 case, la maggior parte delle quali abitate, e quattro baracche nelle aree settentrionali e orientali, con il pretesto che gli edifici si trovano nell’Area C della Cisgiordania occupata, che è sotto il controllo amministrativo e militare israeliano.

Al-Khatib ha aggiunto che negli ultimi due mesi sono stati consegnati 55 avvisi di questo tipo.

(Fonte: MEMO).

Roma. La Municipalità di Roma ha invitato l’occupazione israeliana a rilasciare un cittadino palestinese con cittadinanza italiana e residente nella città italiana di Roma, Khaled Al-Qaisi, imprigionato da Israele da quasi un mese senza alcun atto d’accusa contro di lui, dopo aver trascorso alcune settimane con la sua famiglia nella città palestinese di Betlemme, nel sud della Cisgiordania.

La Municipalità di Roma ha chiesto al governo italiano di attivarsi per liberarlo.

La moglie di Al-Qaisi, Francesca Antonucci, ha dichiarato che la famiglia aveva programmato il viaggio in Cisgiordania, alcuni mesi fa, per registrare il loro unico figlio, Kamal, di quattro anni, nel registro della popolazione dell’Autorità Palestinese. La coppia ha anche chiesto di registrare il loro matrimonio presso l’Autorità Palestinese.

“Invece di fare un viaggio con la famiglia – ha spiegato Antonucci -, Kamal ha visto suo padre ammanettato davanti ai suoi occhi al ponte di Allenby, mentre stavamo tornando in Italia, il 31 agosto”.

Antonucci e suo figlio hanno attraversato il ponte verso la Giordania, da soli, e sono riusciti a trovare un posto dove alloggiare ad Amman solo grazie all’aiuto di donne palestinesi che hanno prestato loro una somma di denaro per affittare un taxi e un albergo, dopo che gli israeliani avevano confiscato bagagli, denaro e telefoni cellulari.

Al-Qaisi, nato a Roma, è un noto traduttore italiano delle opere dello scrittore palestinese Ghassan Kanafani, è anche uno dei fondatori del “Centro di Documentazione Palestinese” di Roma. E’ uno studente dell’Università degli Studi di La Spezia, dove studia lingue e culture orientali, ed è un attivista politico nel gruppo “Giovani Palestinesi” in Italia. La famiglia teme che le autorità israeliane lo abbiano preso di mira a causa delle sue attività civili e culturali a favore della comunità palestinese.

Sebbene Al-Qaisi sia detenuto da più di tre settimane, non è stata ancora mossa alcuna accusa contro di lui e il pubblico ministero ha riferito ai suoi legali che “sta ancora raccogliendo informazioni” su di lui. Sua moglie ha affermato che dal suo arresto, il suo avvocato è andato a trovarlo due volte, l’ultima volta lunedì scorso. Mercoledì scorso, il console italiano a Tel Aviv gli ha fatto visita e ha informato la famiglia che le sue condizioni psicologiche e di salute sono buone.

Giovedì scorso si è tenuta una sessione in un tribunale israeliano nell’insediamento di Petah Tikva, a nord di Tel Aviv, al termine della quale il giudice ha prolungato la detenzione di Al-Qaisi per altri 11 giorni e ha dato al pubblico ministero una scadenza per presentare un atto d’accusa fino all’inizio di ottobre.

La squadra di difesa ha riferito al Comitato italiano per la liberazione di Al-Qaisi che il prigioniero è stato inizialmente tenuto in isolamento in un centro di detenzione a Petah Tikva, poi trasferito nella prigione di Ashkelon, e poi di nuovo a Petah Tikva. Secondo la difesa, Al-Qaisi viene interrogato quotidianamente senza la presenza del suo avvocato.

Il 15 settembre si è tenuto all’Università di La Spezia, alla presenza dei suoi familiari e del suo avvocato italiano, il primo evento del Comitato per la liberazione di Al-Qaisi, con l’obiettivo di far conoscere la sua storia al pubblico italiano.

Durante l’incontro, l’avvocato Flavio Rossi Albertini ha affermato che l’obiettivo principale del comitato è quello di lavorare contro la violazione dei diritti fondamentali di Al-Qaisi come prigioniero, come previsto dal Patto internazionale sui diritti civili e politici stabilito dalle Nazioni Unite, che Israele ha firmato nel 1966 e ratificato nel 1991.

Secondo Albertini, Israele viola questo trattato attraverso il suo diffuso ricorso alla detenzione amministrativa senza processo. “Khaled ha il diritto di conoscere le accuse a suo carico e di avere un’adeguata difesa legale”, ha detto Albertini.

All’evento hanno partecipato centinaia di persone, tra cui gruppi di attivisti, rappresentanti delle reti studentesche di Roma, accademici, rappresentanti di sindacati e associazioni Amnesty International.

A nome della comunità accademica è intervenuta la professoressa Ada Barbaro, docente di Letteratura e Cultura Araba presso l’Università degli Studi di La Spezia, che ha ringraziato il Rettore dell’Università per aver mostrato interesse per il tema e per aver ospitato la riunione della commissione presso il Dipartimento di Lettere.

Il supervisore di Al-Qaisi, il professor Francesco Zappa, del Dipartimento di Storia della Cultura Islamica, ha dichiarato che Al-Qaisi è “un giovane molto pacifico, rispettoso, intelligente e pieno di curiosità intellettuale”. Ha aggiunto: “Non sapevo (ancora) nulla della sua preziosa attività nel documentare la storia e la cultura palestinese. È entrato nei nostri cuori. Non riesco ancora a credere che stia attraversando tutto questo. Tutto quello che posso dire è che spero che si svegli presto da questo incubo”.

Mercoledì scorso il comitato per Al-Qaisi si è riunito nuovamente all’“Energy Park” di Roma, luogo di incontro di movimenti e associazioni romane, noto per il suo legame con le comunità palestinesi della città.

Nel corso della riunione, i membri del comitato hanno affermato che il loro obiettivo è quello di diffondere la notizia del suo arresto il più ampiamente possibile e di fare pressione sul governo italiano affinché agisca per rilasciarlo. Ad oggi, fatta eccezione per due visite del console italiano a Tel Aviv, non si conosce alcuna comunicazione ufficiale da parte del governo italiano riguardo ad Al-Qaisi, e il comitato prevede di organizzare una giornata nazionale di protesta in Italia verso la fine di settembre.

Mercoledì scorso, dieci rappresentanti italiani del blocco della “Sinistra Democratica” al Parlamento Europeo hanno presentato un’interrogazione su Al-Qaisi alla Commissione dell’Unione Europea e alla Commissione Affari Esteri del Parlamento su Al-Qaisi.

L’interrogazione ha stabilito che l’arresto di Al-Qaisi è stato effettuato in una “chiara violazione” della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, poiché non è stato informato delle accuse contro di lui”. I deputati si chiedono se le autorità europee abbiano contattato le autorità israeliane in merito al suo caso e abbiano chiesto che i suoi diritti siano rispettati.

Allo stesso tempo, giovedì scorso, alcune fazioni di sinistra nel Consiglio Comunale di Roma sono riuscite ad approvare una risoluzione in Consiglio Comunale a favore di Al-Qaisi.

Il Consiglio ha affermato: “La proroga della sua detenzione per altri 11 giorni indica il peggioramento della sua situazione e per questo riteniamo che le autorità italiane debbano prendere posizione contro l’ingiustificabile arresto di un cittadino italiano, sottolineando la necessità del suo rapido ritorno nella sua patria, a Roma, dove lo aspettano la moglie e il figlio”.

(Fonte: Quds Press).

Gerusalemme/al-Quds. Martedì mattina, decine di coloni hanno preso d’assalto il complesso della moschea di al-Aqsa, entrando dalla Porta al-Maghariba, sotto la pesante protezione della polizia di occupazione israeliana.

Fin dalla mattina, la polizia d’occupazione ha schierato le sue forze e unità speciali nei cortili di al-Aqsa e ai suoi cancelli per proteggere le incursioni dei coloni.

Il Dipartimento per le dotazioni islamiche, Awqaf, nella Gerusalemme occupata (affiliato alla Giordania) ha dichiarato che decine di coloni hanno invaso la moschea di al-Aqsa, organizzato visite provocatorie nei suoi cortili ed eseguito rituali nell’area di Bab al-Rahma, a est.

La polizia d’occupazione continua a imporre restrizioni all’ingresso dei fedeli ad al-Aqsa, controllandone l’identità e trattenendone alcuni ai cancelli esterni.

Ogni giorno, tranne il venerdì e il sabato, il complesso di al-Aqsa è testimone di una serie di violazioni e incursioni da parte dei coloni, con la protezione della polizia d’occupazione, nel tentativo di imporre il pieno controllo sulla moschea e di dividerla temporalmente e spazialmente.

(Fonte: Quds Press).

Palestine-studies.org/. Di Di Nicola Perugini e Kareem Rabie. (Da InvictaPalestina.org). Negli ultimi mesi è stato scritto molto sulla riforma del sistema giudiziario israeliano voluta da Netanyahu definendola come un “assalto alla democrazia israeliana” e un “Colpo di Stato giudiziario”. Martedì la Corte Suprema israeliana ha iniziato ad esaminare le argomentazioni contro la riforma in quella che viene descritta come una “crisi costituzionale”.

Negli ultimi mesi è stato scritto molto sulla riforma del sistema giudiziario israeliano voluta da Netanyahu definendola come un “assalto alla democrazia israeliana” e un “Colpo di Stato giudiziario”. Martedì la Corte Suprema israeliana ha iniziato ad esaminare le argomentazioni contro la riforma in quella che viene descritta come una “crisi costituzionale”. Ma uno sguardo più attento ai programmi politico-legali e allo sviluppo storico di alcuni dei settori più etno-nazionalisti del governo israeliano rivela una relazione più complicata tra la riforma giudiziaria, l’Occupazione e la democrazia dei coloni israeliani.

Nel 2010, eravamo in Palestina per fare ricerche su diversi aspetti delle rivendicazioni territoriali palestinesi, quando ci siamo imbattuti in Regavim: l’Organizzazione per la protezione della terra nazionale. Regavim è un “movimento pubblico” di estrema destra, guidato dai coloni, dedicato alla “prevenzione dell’esproprio di terreni statali.” Il movimento è nato come risposta al piano di disimpegno di Ariel Sharon del 2005 e all’evacuazione delle colonie sioniste dalla Striscia di Gaza. Successivamente ha fatto sua l’opposizione agli ostacoli che la Corte Suprema del regime israeliano ha posto nel tempo davanti ad una manciata di insediamenti illegali in Cisgiordania. Quella stessa Corte Suprema è oggi il luogo dell’attuale contesa politica che circonda la riforma giudiziaria.

Riflessi.

Nei discorsi progressisti israeliani e internazionali, il movimento dei coloni è generalmente descritto come una minoranza religiosa radicale che prende il controllo dello Stato democratico di Israele e rinnega la soluzione dei Due Stati stabilendo “avamposti illegali” nel cuore del Territorio Palestinese. Tuttavia questa rappresentazione è fuorviante. Infatti, i presunti gruppi israeliani “liberali” e il movimento dei coloni ultra-nazionalisti prendono tutti parte alla difesa di uno Stato di Apartheid. La loro vicinanza politica è tale che, dopo il disimpegno di Sharon nel 2005, Regavim e altre organizzazioni “non governative” del movimento ultra-nazionalista dei coloni hanno iniziato ad appropriarsi della logica giuridica liberale e a imitare formalmente i casi legali sui diritti umani; La riforma di destra e l’antiriforma progressista vengono portate avanti attraverso gli stessi canali e utilizzando lo stesso linguaggio. Hanno iniziato a combattere “nelle sfere pubbliche, parlamentari e giudiziarie” con lo stesso impegno solitamente utilizzato dalle ONG anti-occupazione locali e internazionali (documenti di opinione e di ricerca, rapporti, comunicazioni ai media e istanze ai tribunali).

Questi gruppi adottano un approccio basato sui diritti nei confronti del ritorno dei coloni evacuati da Sharon durante il disimpegno e promuovono il diritto incondizionato dei coloni a colonizzare ulteriormente le terre palestinesi. Nel nostro incontro con Regavim e organizzazioni simili, siamo rimasti sbalorditi dall’inversione retorica e pratica della realtà tra chi è espropriato e chi perpetra l’esproprio. Per questo movimento che lavora per controllare tutte le aree della Cisgiordania sulla scia del disimpegno di Sharon, i villaggi palestinesi, i paesi e le città sono etichettati come “costruzioni illegali” da sorvegliare, monitorare e processare all’interno del sistema giudiziario coloniale. Regavim ha avviato una pratica di “emulazione” delle istanze da parte di ONG israeliane di sinistra e liberali come Peace Now, Settlement Watch e Yesh Din per presentare i coloni invasori, piuttosto che i palestinesi, come vittime. Il principale avvocato israeliano per i diritti umani Michael Sfard ci ha detto che si trattava di “una trovata” progettata per causare “scompiglio”, ma comunque una “rivoluzione nell’uso del sistema giuridico” con l’obiettivo finale di rendere operativa la legge e il processo liberale sulla protezione delle minoranze per espropriare i palestinesi ed estendere la giurisdizione civile israeliana nei Territori Palestinesi Occupati.

Tuttavia, mentre Regavim dichiara che i suoi obiettivi non sono quelli di sovvertire la democrazia o distruggere la Corte, e nemmeno principalmente di prendere di mira i cittadini ebrei liberali, ma di preoccuparsi di quello che ritiene essere il carattere “scandaloso” e “antiebraico” della Corte Suprema. Regavim utilizza invece gli strumenti della democrazia liberale per riformare e correggere la “degenerazione” della Corte post-disimpegno, per ritornare e realizzare una visione coloniale-sionista di Israele a scapito dell’esistenza palestinese.

Dal movimento al governo.

Il 1° novembre 2022, il Partito del Sionismo Religioso e il Partito Kahanista Otzma Yehudit (Potere Ebraico) si sono assicurati 14 seggi nel Parlamento israeliano. Tra le elezioni del 2021 e del 2022, le formazioni politiche per le quali la colonizzazione delle terre palestinesi nei territori del 1967 è un obiettivo centrale e i coloni del 1967 un collegio elettorale primario, hanno più che raddoppiato i loro voti, diventando una delle forze principali della Knesset. Il successo di questi partiti è anche il successo di alcune delle figure di spicco della trasformazione nazionalista-liberale del disimpegno dei coloni post-2005 che abbiamo iniziato a osservare nel 2010.

L’attuale Ministro delle Finanze e dell’Amministrazione degli Insediamenti israeliano, Bezalel Smotrich, ha spesso invocato la pulizia etnica dei palestinesi. Più recentemente, ha chiesto ai coloni illegali di “spazzare via” la città palestinese di Huwara. Smotrich è uno dei fondatori di Regavim e ne è stato il “direttore delle attività”. Un altro dei cofondatori, Yehuda Eliyahu, è diventato il braccio destro di Smotrich presso il Ministero dell’Amministrazione degli Insediamenti. Orit Strock, ex capo di un’organizzazione con mandato e scopo simili a quelli di Regavim, l’Organizzazione Yesha di Giudea e Samaria, è l’attuale Ministro degli Insediamenti e delle Missioni Nazionali. Queste figure sono ora entrate nel governo e si sono trovate in posizioni centrali e di potere.

Questa influente fazione del movimento dei coloni del 1967 ha eseguito modifiche nei rami legislativo ed esecutivo sotto forma di riforma politico-legale. Uno dei momenti più importanti in questa svolta verso la difesa dei diritti dei coloni si è verificato nel 2017, in seguito a uno scontro tra agenti di polizia delle Forze di Occupazione Israeliane e coloni illegali ad Amona, un avamposto della Cisgiordania evacuato da Sharon nel 2006. Amona è un riferimento importante nell’identità politica dei coloni radicali: le azioni della polizia israeliana divennero note come “il Pogrom di Amona”. In risposta, Smotrich, ormai membro della Knesset, ha introdotto la “Legge sulla Regolamentazione degli Insediamenti in Giudea e Samaria”, che consente l’espropriazione della terra palestinese su cui sono stati “costruiti in buona fede” gli insediamenti ebraici. La legge, approvata dal Parlamento israeliano, aveva lo scopo di riconquistare Amona e garantire ai “proprietari” (coloni illegali che occupano terre palestinesi) “terre alternative o risarcimenti” per i loro problemi. Senza ironia, questo è sia un progetto estremista di riconquista violenta ed etno-nazionalista, sia un movimento per i diritti civili, portato avanti attraverso la logica della protezione delle minoranze progettata per espropriare ed eliminare ulteriormente la popolazione nativa palestinese.

Mentre quella legge veniva contestata dai firmatari anti-Occupazione, il governo Netanyahu sosteneva che la regolarizzazione era “una risposta umana, proporzionata e ragionevole al reale disagio” vissuto dai coloni durante l’evacuazione del 2006. Questo fu il momento in cui quella che l’avvocato filo-palestinese Sfard definì una “assurdità” si affermò saldamente come base retorica e ideologica per la riforma. Precedentemente impugnata dagli elementi più reazionari del movimento dei coloni, l’argomentazione di Regavim e dei suoi compagni di viaggio sui “diritti umani dei coloni”” e sulla necessità di porre rimedio alla “acquisizione illegale” delle terre ebraiche da parte dei palestinesi divenne una rivendicazione fondamentale all’interno delle istituzioni israeliane.

L’attuale lotta politica dipende dalla Corte Suprema, per due ragioni principali: La prima è che i liberali la difendono come un bastione della “democrazia israeliana”. E la seconda, perché è uno dei pochi luoghi in cui vengono effettuati controlli irrisori sull’espansionismo degli insediamenti. Così, quando, nel 2020, le ONG liberali e il blocco anti-riforma hanno convinto la Corte Suprema a invalidare la legge di regolarizzazione di Smotrich sulla base del fatto che “viola in modo sproporzionato i diritti dei palestinesi alla proprietà, all’uguaglianza e alla dignità”, questa Corte “degenerata” è diventata l’obiettivo principale degli attacchi a causa delle barriere limitate che ha posto all’espansione illegale degli insediamenti israeliani.

Questa volta, non sono stati Regavim e le ONG del movimento dei coloni radicali a portare avanti la lotta per la riforma giudiziaria dai margini, piuttosto, sono stati i loro parlamentari, i loro sostenitori parlamentari e il governo Netanyahu. Quando la Corte Suprema invalidò la legge sulla regolarizzazione, Smotrich sostenne un nuovo disegno di legge “che consentisse alla Knesset di scavalcare immediatamente i tribunali”. Nel frattempo, Yariv Levin, Ministro della Giustizia israeliano e principale architetto della riforma giudiziaria di Netanyahu, ha attaccato la Corte Suprema, affermando che la sua decisione “ha calpestato la democrazia israeliana e i diritti umani fondamentali di molti cittadini israeliani”.

Contraddizione.

I manifestanti anti-riforma giudiziaria lottano con una contraddizione fondamentale. Per decenni gli israeliani liberali hanno cercato di presentare la colonizzazione dei Territori Palestinesi del 1967 come l’iniziativa di poche mele marce, pur sapendo che lo Stato, uno Stato di Apartheid di coloni secondo Amnesty International e altre importanti organizzazioni per i diritti umani, vi era strutturalmente implicato, anche attraverso l’approvazione della Corte Suprema. La difesa liberale della magistratura e l’attenzione alla cittadinanza e alla democrazia sono in qualche modo in contraddizione: sebbene ci siano state alcune importanti decisioni a favore dei palestinesi, si tratta di anomalie all’interno di un mare di giudizi che alla fine formalizzano le colonie, lo Stato Coloniale e l’Occupazione israeliana.

I manifestanti si trovano di fronte a due opzioni. Da un lato, proteggere lo status quo, come stanno cercando di fare, che significa sostenere le istituzioni giudiziarie di una democrazia di coloni che nega i diritti umani dei palestinesi, con occasionali sanzioni della Corte Suprema contro gli eccessi criminali come gesto benevolo agli occhi della comunità internazionale. D’altra parte, forse pensano che arrendersi alla riforma significherebbe adattarsi a una versione ancora più radicale della già esistente democrazia coloniale dei coloni, una versione che esisterebbe senza nemmeno la finzione della Corte Suprema.

Nicola Perugini è Professore Associato di Relazioni Internazionali presso l’Università di Edimburgo. È coautore di: Il Diritto Umano di Dominare (The Human Right to Dominate – Edizioni Università di Oxford 2015), Sintomi Morbosi (Morbid Symptoms – Sharjah Biennial 13, 2017) e Scudi Umani: Una Storia di Persone Sulla Linea del Fuoco (Human Shields: A History of People in the Line of Fire – Edizioni Università della California 2020).

Kareem Rabie è professore associato di antropologia presso l’Università dell’Illinois a Chicago e autore di: La Palestina Sta Dando Una Festa eTutto il Mondo è Invitato: Capitale e Costruzione Statale in Cisgiordania (Palestine is Throwing a Party and the Whole World is Invited: Capital and State Building in the West Bank – Edizioni Università di Duke, 2021).

Traduzione di Beniamino Rocchetto per Invictapalestina.org

Gaza. Lunedì sera, un cittadino palestinese è stato ferito da proiettili letali e decine di altri sono rimasti asfissiati dai gas lacrimogeni durante l’attacco delle forze di occupazione israeliane (IOF) contro i manifestanti a est della Striscia di Gaza.

Inoltre, Aerei da guerra israeliani hanno preso di mira con tre missili un posto di osservazione della resistenza palestinese nella zona orientale della città di Gaza.

Giovani palestinesi hanno dato fuoco a pneumatici e scandito slogan nazionali a est di Rafah, Khan Yunis, Gaza e in tutte le aree di confine.

Dal 13 settembre, i cittadini palestinesi stanno manifestando lungo i confini orientali di Gaza per condannare i crescenti attacchi dei coloni contro la moschea di Al-Aqsa e per chiedere la revoca dell’assedio di Gaza.

Da quando sono iniziate le proteste, sette cittadini palestinesi sono stati uccisi da proiettili letali israeliani negli attacchi contro i manifestanti lungo i confini orientali di Gaza, e a decine sono rimasti feriti.

(Fonti: PIC, Quds Press e Wafa).

Cisgiordania-Btselem.org. (Da Zeitun.info). Da decenni Israele mette in pratica una serie di misure programmate per rendere invivibile la vita all’interno di decine di comunità palestinesi in tutta la Cisgiordania. Ciò fa parte di un tentativo di costringere gli abitanti di queste comunità ad andarsene via, apparentemente di propria iniziativa. Una volta raggiunto questo scopo lo Stato potrà realizzare il suo obiettivo di impossessarsi del territorio. Per raggiungere questo obiettivo Israele vieta ai componenti di queste comunità di costruire case, strutture agricole o edifici pubblici. Non consente loro di collegarsi alle reti idriche ed elettriche o di costruire strade e quando, non avendo altra scelta, lo fanno Israele minaccia la demolizione, passando spesso alle vie di fatto.

La violenza dei coloni è un altro strumento utilizzato da Israele per creare ulteriori tormenti ai palestinesi che vivono in queste comunità.

Sotto l’attuale governo tali aggressioni sono notevolmente peggiorate trasformando la vita in alcuni luoghi in un incubo senza fine e negando agli abitanti qualsiasi possibilità di vivere con un minimo di dignità. La violenza ha privato gli abitanti palestinesi della loro capacità di continuare a guadagnarsi da vivere. Li ha terrorizzati al punto da temere per le loro vite e ha inculcato in loro la consapevolezza che non c’è nessuno che li protegga.

Questa realtà non ha lasciato a queste comunità altra scelta e molte di loro si sono sradicate, abbandonando le proprie abitazioni per luoghi più sicuri. Vivono in simili condizioni decine di comunità sparse in tutta la Cisgiordania. Se Israele continuasse questa politica tutti gli abitanti potrebbero essere sfollati, permettendo a Israele di raggiungere il suo obiettivo e di impossessarsi della loro terra.

Lo sfondo.

Decine di comunità di pastori palestinesi sono sparse in tutta la Cisgiordania. Poiché Israele classifica queste comunità come “non riconosciute”, non consente loro di collegarsi alle reti idriche ed elettriche o al sistema stradale. Israele considera inoltre “illegali” tutti gli edifici costruiti in queste comunità (case, edifici pubblici e strutture agricole) ed emette ordini di demolizione nei loro confronti, che in alcuni casi esegue. Alcuni edifici sono stati demoliti e ricostruiti più volte.

Negli ultimi anni i coloni hanno costruito con l’aiuto dello Stato decine di avamposti e piccole fattorie vicino a queste comunità e da allora la violenza contro i palestinesi che vivono nell’area è aumentata, con un’impennata particolare sotto l’attuale governo. Durante questi attacchi violenti, diventati una terrificante routine quotidiana, i coloni mandano via i pastori e gli agricoltori palestinesi dai loro pascoli e campi, aggrediscono fisicamente gli abitanti delle comunità, entrano nelle loro case nel cuore della notte, danno fuoco a proprietà palestinesi, spaventano il bestiame, distruggono i raccolti, compiono dei furti e bloccano le strade. Gli abitanti palestinesi hanno anche riferito che i coloni hanno aperto le valvole dei serbatoi dell’acqua e hanno condotto le loro greggi a bere nei bacini idrici palestinesi.

In tali circostanze gli abitanti di queste comunità non hanno più potuto continuare a recarsi nei loro pascoli e campi agricoli. In alcuni luoghi, in assenza dei palestinesi, i coloni hanno iniziato a coltivare i loro campi sotto la protezione dei soldati. In altri luoghi i coloni hanno iniziato a far pascolare le greggi di loro proprietà in pascoli che fino a poco tempo fa erano stati utilizzati dai pastori palestinesi. Senza accesso ai pascoli, i palestinesi sono stati costretti ad acquistare a costi elevati foraggio e acqua per le loro greggi, il che ha causato perdite finanziarie significative, distruggendo di fatto i loro mezzi di sussistenza.

L’attuale governo gioca un ruolo significativo in questo stato di cose. Sebbene non abbia introdotto restrizioni riguardo alla costruzione e demolizione di case palestinesi e all’uso della violenza da parte dei coloni per prendere il controllo della terra palestinese, conferisce piena legittimità alla violenza dei coloni contro i palestinesi incoraggiando e sostenendo pubblicamente i responsabili. Membri di questo governo sono stati in passato artefici di tali violenze. Ora sono loro le persone incaricate di programmare la politica. Stanziano i fondi che finanziano la violenza e sono responsabili dell’applicazione della legge sui coloni che attaccano i palestinesi.

Questo governo non si preoccupa nemmeno di esprimere quelle vuote condanne che un tempo si udivano dopo questi atti di violenza, elogiando al contrario i coloni violenti. Laddove i governi precedenti insistevano nel mantenere in piedi la farsa di un sistema giudiziario efficiente nell’indagare e perseguire gli israeliani che provocassero dei danni ai palestinesi, i membri di questo governo sono impegnati a cancellarne ogni traccia, con un ministro che chiede di “cancellare Huwarah” [il ministro delle finanze Bezalel Smotrich a proposito del pogrom nella città palestinese nella Cisgiordania settentrionale, ndt.]”, membri dei partiti della coalizione che visitano in ospedale un israeliano sospettato di aver ucciso un palestinese e ministri che si rifiutano di condannare la violenza, il tutto tollerando e giustificando un pogrom dopo l’altro nelle comunità palestinesi.

Le prime a subire le conseguenze di questo cambiamento sono le comunità palestinesi più isolate e vulnerabili. Queste comunità vivono nelle condizioni più elementari, circondate da avamposti di insediamento coloniale i cui abitanti hanno carta bianca per far loro del male impunemente. Se i palestinesi di comunità più consolidate come Turmusaya e Um Safa non hanno ricevuto alcuna protezione mentre i soldati e gli agenti di polizia spalleggiavano i responsabili dei pogrom, che speranza hanno gli abitanti di sperdute comunità di pastori? Il timore per la loro stessa sopravvivenza, la consapevolezza che insieme ai propri figli essi siano stati abbandonati al loro destino, il tutto perdendo le fonti di reddito, li ha, comprensibilmente, privati della possibilità di continuare a vivere nelle loro comunità e li ha costretti ad andarsene.

Le comunità sfollate.

Negli ultimi due anni almeno sei comunità della Cisgiordania sono state costrette a sfollare.

Quattro delle comunità vivevano a nord e nord-est di Ramallah. Alcuni dei loro componenti abitavano su terreni di proprietà di altri palestinesi che avevano accettato di lasciarli vivere lì dopo la loro cacciata da altri luoghi in Israele e in Cisgiordania. Negli ultimi anni, con l’aiuto dello Stato, attorno a queste comunità sono stati creati diversi avamposti coloniali residenziali e agricoli israeliani, il primo dei quali, Micha’s Farm, è stato fondato nel 2018. Come altrove in Cisgiordania, questi avamposti coloniali sono stati quasi immediatamente collegati alle reti idriche ed elettriche, nonché alla rete stradale. Hanno goduto dell’immunità dalle demolizioni e i loro abitanti lavorano in pieno concerto con i militari, che forniscono loro protezione. Alcuni di questi avamposti sono stati realizzati in aree dove, ufficialmente, non può essere costruita alcuna comunità, poiché Israele le ha dichiarate “zone di tiro”, ma hanno comunque ricevuto il sostegno dello Stato.

Le quattro comunità sfollate in quest’area sono:

  • Ras a-Tin: Il 7 luglio 2022, i circa 120 componenti di questa comunità, circa la metà dei quali minorenni, se ne sono andati via. La comunità venne fondata alla fine degli anni ’60 da palestinesi che Israele aveva sfollato dalle colline a sud di Hebron su terreni palestinesi di proprietà privata e registrati appartenenti ai residenti di Kafr Malik e al-Mughayir. Nel corso degli anni, l’amministrazione civile ha emesso ordini di demolizione contro alcuni edifici degli abitanti e fino ad oggi Israele aveva demolito tre edifici non residenziali della comunità. L’Amministrazione Civile aveva emesso un ordine di demolizione anche per la scuola costruita dagli abitanti della comunità. Nel 2018 vicino alla comunità è stata costruita Micha’s Farm, un avamposto di insediamento coloniale, e in seguito alla sua fondazione gli abitanti della comunità hanno segnalato un aumento significativo di episodi di violenza, tra cui molestie, furti, atti di vandalismo e violenze verbali, che sono diventati una routine quotidiana.
  • ‘Ein Samia: il 22 maggio 2023 gli ultimi abitanti rimasti della comunità di ‘Ein Samia costituita da 28 famiglie per un totale di circa 200 componenti, hanno abbandonato le loro case. La comunità si stabilì in quel sito su terreni dati in affitto dagli abitanti della vicina Kafr Malik nel 1980, dopo essere stata costretta dagli israeliani a sfollare più volte da altre località. Nel corso degli anni l’amministrazione civile ha emesso ordini di demolizione contro alcuni edifici degli abitanti e fino ad oggi Israele ha demolito 21 case della comunità, che ospitavano 83 persone, tra cui 52 minori, oltre ad altri 28 edifici non residenziali. L’Amministrazione Civile ha inoltre emesso un ordine di demolizione per la scuola della comunità, utilizzata da circa 40 bambini. Nell’ottobre 2022 il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha respinto una petizione presentata dagli abitanti del luogo perché ne venisse sospesa la demolizione. Gli abitanti se ne sono andati prima che l’ordine di demolizione fosse eseguito. Anche gli abitanti di ‘Ein Samia hanno segnalato un aumento significativo della violenza dei coloni a partire dal 2018. Una settimana prima che la comunità se ne andasse, la polizia ha confiscato agli abitanti decine di pecore e capre con la falsa accusa che fossero state rubate ai coloni. Durante la notte i coloni sono entrati nella comunità, hanno attaccato gli abitanti e la scuola, hanno fatto volare un drone sopra di loro e hanno dato fuoco ai pascoli. Inoltre hanno lasciato libero il loro gregge nei campi agricoli della comunità e gli animali hanno consumato l’intero raccolto.
  • al-Baq’ah: Il 10 luglio 2023 33 persone, tra cui 21 minori, sono state costrette a sfollare. Il 1 settembre 2023 è stata allontanata anche l’ultima famiglia rimasta, composta da 5 persone di cui un minore. La loro partenza è stata preceduta da attacchi quotidiani da parte di coloni che avevano costruito una fattoria a circa 50 metri dalle case della comunità, avevano installato pannelli solari, si erano collegati alle infrastrutture idriche che servono il vicino avamposto di Neve Erez e avevano preso il controllo della via di accesso della comunità alla strada principale. I coloni facevano anche pascolare il loro gregge, che contava tra 60 e 70 capi di pecore, nei pascoli della comunità e molestavano i pastori del luogo che portavano al pascolo le proprie greggi. Il 7 luglio 2023, intorno alle 6,30, una tenda della comunità, più isolata rispetto alle altre, è stata incendiata. La famiglia in quel momento era fuori, poiché sin dalla fondazione dell’avamposto trascorreva le notti altrove per paura di attacchi da parte dei coloni. La famiglia ha visto l’incendio da lontano e ha chiamato la polizia, ma non è intervenuto nessuno.
  • al-Qabun: La comunità, che ospitava 12 famiglie per un totale di 86 residenti, tra cui 26 minori, è stata costretta a sfollare all’inizio dell’agosto del 2023. La comunità viveva in quel luogo dal 1996, dopo che Israele, nei primi anni ’50, aveva costretto i suoi componenti a lasciare il deserto del Negev. Nel corso degli anni l’amministrazione civile ha emesso ordini di demolizione contro alcuni edifici degli abitanti e fino ad oggi Israele ha demolito sei case che ospitavano 41 persone, tra cui 18 minori, e 12 edifici non residenziali. Nel febbraio di quest’anno i coloni hanno realizzato un avamposto vicino alla comunità, all’interno di un’area che Israele aveva dichiarato “zona di tiro”. Gli abitanti hanno riferito di essere stati perseguitati dai coloni, che giravano intorno alle loro case fino ad entrarvi, arrivavano a tarda notte a cavallo e in fuoristrada, li intimidivano, si impossessavano dei loro campi coltivati e gli impedivano di portare al pascolo il loro gregge.

Nelle colline a sud di Hebron almeno altre due comunità sono state costrette a sfollare con la forza. La prima era Khirbet Simri, una frazione di due famiglie appartenenti a due fratelli con un totale di 20 componenti, di cui otto minorenni. Nel 1998 in cima alla collina dove viveva la comunità venne fondato l’avamposto coloniale di Mitzpe Yaire e ne seguì un aumento delle violenze. I coloni importunavano i membri della comunità, li minacciavano, entravano nelle loro case e impedivano loro di far pascolare le greggi. Nel 2020 i coloni hanno portato una mandria di bovini, che hanno pascolato su un terreno utilizzato dagli abitanti della comunità. Nel luglio 2022 questi hanno deciso di andarsene.

La seconda comunità ad andare via è stata Widady a-Tahta, anch’essa composta da 20 abitanti, tra cui 12 minori. La comunità viveva nel sito da circa 50 anni. Circa due anni fa i coloni hanno realizzato un avamposto a circa 500 metri dalle case della comunità. Da allora, i coloni hanno ripetutamente bloccato l’accesso dei componenti della comunità ai pascoli attorno alle loro case, anche utilizzando un drone per spaventare e disperdere il gregge. Inoltre coloni armati penetravano ripetutamente a tutte le ore nelle case degli abitanti, in alcuni casi con un cane, aggredendo i componenti della comunità, picchiandoli e minacciandoli con le armi. Inoltre, circa un anno fa l’Amministrazione Civile ha emesso ordini di demolizione di tutti gli edifici del piccolo borgo: tre strutture residenziali e un recinto per il bestiame. Il 27 giugno 2023 due coloni armati sono entrati nella comunità e hanno minacciato uno degli abitanti che stava portando al pascolo le sue pecore vicino a casa. È fuggito per chiedere aiuto ai familiari e i coloni hanno cercato di rubare le pecore, ma quando hanno visto gli abitanti avvicinarsi le hanno abbandonate e sono tornati all’avamposto. La famiglia ha contattato la polizia, ma questa si è rifiutata di aiutarli. Dopo questo incidente la famiglia è giunta alla decisione che il pericolo era troppo grande e hanno dovuto andarsene.

Parte di una politica di lunga data.

Queste comunità non hanno preso la decisione di lasciare tutto senza un motivo. È il risultato diretto della politica di Israele, progettata per raggiungere questo esatto risultato: costringere i palestinesi a sfollare e ridurre il loro spazio vitale per trasferire la loro terra in mani ebraiche. La politica si basa su una serie di restrizioni, misure e pratiche abusive da parte dello Stato e dei suoi rappresentanti, con vari livelli di durezza e perseguite sia ufficialmente che ufficiosamente.

Il percorso ufficiale: restrizioni estreme ad edilizia e ampliamento.

Israele di fatto vieta ai palestinesi edilizia e ampliamento nell’Area C [sotto controllo civile e di sicurezza israeliano, ndt.], che comprende il 60% della Cisgiordania. L’area ospita 200.000-300.000 palestinesi, migliaia dei quali vivono in decine di comunità di pastori e agricoltori. Sebbene la maggior parte degli abitanti palestinesi della Cisgiordania viva nelle aree definite A e B dagli Accordi di Oslo, firmati circa 30 anni fa sotto forma di intesa ad interim quinquennale, tutti i palestinesi sono colpiti dal divieto di costruire. Il motivo è che quando furono firmati gli Accordi di Oslo le Aree B[sotto controllo civile palestinese e di sicurezza israeliano, ndt.] e A [sotto totale controllo palestinese, ndt.] erano già in gran parte popolate, mentre le aree con un potenziale di sviluppo urbano, agricolo ed economico rimanevano per lo più nell’Area C, e da allora la popolazione palestinese è quasi raddoppiata.

Per impedire l’edilizia palestinese nell’Area C Israele ne ha stabilito il divieto per circa il 60%, assegnando diverse definizioni legali ad aree vaste (e talvolta sovrapposte): il “terreno statale” comprende circa il 35% dell’Area C, i campi di addestramento militare (zone di tiro) comprendono circa il 30%, le riserve naturali e i parchi nazionali coprono un altro 14% e le giurisdizioni degli insediamenti coloniali comprendono un altro 16% della stessa area. Israele sta conducendo una guerra incessante contro i palestinesi che vivono in queste aree, allontanandoli ripetutamente dalla loro terra con falsi pretesti, come “l’addestramento militare”, demolendo le loro case e confiscando le loro proprietà.

Nel restante 40% dell’Area C Israele, che ha il controllo pieno ed esclusivo sull’edificazione e pianificazione in Cisgiordania, impone restrizioni estreme a edificazioni e ampliamenti. L’Amministrazione Civile si rifiuta di preparare piani regolatori per la stragrande maggioranza delle comunità palestinesi in quest’area. I pochi piani regolatori approvati dall’Amministrazione Civile, che rappresentano meno dell’1% dell’Area C e in aree in gran parte già edificate, non soddisfano i criteri di pianificazione accettati oggi nel mondo.

Le probabilità che un palestinese riceva un permesso di costruzione, anche su un terreno di proprietà privata, sono minime. Secondo i dati forniti dall’Amministrazione Civile a da Peace Now [movimento progressista pacifista non-governativo israeliano, ndt.] nel decennio tra il 2009 e il 2018 sono stati approvati solo 98 permessi per costruzioni residenziali, industriali, agricole e infrastrutturali su 4.422 domande di autorizzazione presentate (2%). Secondo i dati forniti alla ONG israeliana Bimkom, su 2.550 domande presentate tra il 2016 e il 2020 ne sono state approvate 24 (meno dell’1%). Il numero di domande di permesso presentate non riflette necessariamente le esigenze edilizie dei palestinesi, dal momento che la maggior parte dei palestinesi non si prende più la briga di presentare domande di permesso di costruzione, sapendo che verranno comunque respinte.

La mancanza di piani regolatori impedisce non solo l’edilizia residenziale ma anche la costruzione per scopi pubblici, come scuole e strutture mediche, nonché le infrastrutture, compresi i collegamenti alla rete stradale e alle reti idriche ed elettriche. A causa del cambiamento climatico le restrizioni sulle infrastrutture rendono di anno in anno la vita più difficile per gli abitanti palestinesi. Non solo Israele nega agli abitanti il collegamento alle infrastrutture ma impedisce loro anche di prendersi cura dei propri bisogni in modo indipendente, vietando lo scavo di cisterne per l’acqua e l’installazione di impianti solari e confiscando regolarmente i serbatoi dell’acqua. Senza collegamenti all’acqua corrente il consumo di acqua in queste comunità è di 26 litri al giorno per persona, equivalente al consumo di acqua nelle zone disastrate e circa un quarto dei 100 litri al giorno per persona raccomandati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Date queste condizioni i palestinesi sono costretti a promuovere l’ampliamento delle loro comunità e a costruire le loro case senza permessi. Lo fanno non perché siano criminali ma perché non hanno la possibilità di costruire legalmente. L’Amministrazione Civile emette ordini di demolizione contro questi edifici, talvolta con successiva messa in atto. Secondo i dati di B’Tselem, tra il 2006 e il 31 luglio 2023 Israele ha demolito in Cisgiordania 2.123 case. A causa di queste demolizioni 8.580 persone, tra cui 4.324 minori, hanno perso la casa. Durante questo periodo Israele ha demolito anche 3.387 edifici non residenziali.

Pertanto, utilizzando uno sterile vocabolario giuridico e di pianificazione urbana e agganciandosi a ordini militari e “leggi sulla pianificazione e sull’edilizia”, Israele riesce a cacciare i palestinesi dalle vaste aree che sono oggetto delle sue mire e a confinarli in aree più piccole dove tiene in sospeso le loro vite e applica politiche volte a negare loro qualsiasi sviluppo. I palestinesi sono costretti a vivere in una costante incertezza riguardo al loro futuro e nella paura senza fine che si presenti il personale dell’amministrazione civile per consegnare ordini di demolizione o per demolire ciò che hanno già costruito. Vivono in uno stato di costante deprivazione, in condizioni che non possono essere paragonate a quelle degli insediamenti coloniali costruiti vicino alle loro comunità e spesso sulle loro terre.

Il percorso non ufficiale: la violenza dei coloni.

L’accaparramento di terre da parte di Israele viene perseguito anche attraverso atti quotidiani di violenza compiuti da bande di coloni che operano senza timore di conseguenze, armate, sostenute, incoraggiate e finanziate dallo Stato, direttamente o indirettamente. Questi atti di violenza fanno parte di un’ampia strategia progettata per costringere i palestinesi dall’Area C a sfollare.

Negli ultimi anni sono state create in tutta la Cisgiordania circa 70 “fattorie agricole” . Avviare un’azienda agricola richiede molte meno risorse rispetto alla costruzione di un insediamento coloniale e attraverso il pascolo di pecore e bovini queste aziende agricole consentono una facile acquisizione di vaste aree che si estendono su migliaia di dunam, che di solito contengono pascoli, risorse idriche e terre coltivate dai palestinesi. I coloni che vivono in queste fattorie terrorizzano i palestinesi che abitano vicino a loro.

Le tattiche principali utilizzate dai coloni comprendono l’occupazione dei pascoli facendovi pascolare pecore e bovini, la corsa di quad contro greggi palestinesi e il sorvolo di droni per spaventare e disperdere gli animali, l’uso della violenza fisica contro gli abitanti palestinesi delle comunità, nei pascoli, nei campi coltivati e all’interno delle loro case, e il danneggiamento delle fonti d’acqua.

Usando queste tattiche i coloni sono riusciti ad allontanare pastori e agricoltori palestinesi dai campi, dai pascoli e dalle fonti d’acqua su cui hanno fatto affidamento per generazioni e a prenderne il controllo. Una ricerca condotta da B’Tselem circa due anni fa ha rilevato che cinque piccole fattorie di coloni, con solo poche decine di abitanti, di solito una famiglia o due e alcuni giovani, hanno preso il controllo di un’area che si estende per un totale di oltre 28.000 dunam (1 dunam = 1.000 metri quadrati) di terreni agricoli e pascoli utilizzati dalle comunità palestinesi per generazioni.

I militari, che sono ben consapevoli di queste azioni, evitano di affrontare i coloni violenti per una questione politica mentre invece a volte partecipano essi stessi a questi atti o proteggono i coloni a distanza. L’inerzia di Israele continua dopo che si sono verificati gli attacchi dei coloni contro i palestinesi, dato che le autorità preposte all’applicazione della legge fanno tutto il possibile per evitare che qualcuno risponda a questi incidenti. Le denunce sono difficili da presentare e nei pochissimi casi in cui vengono effettivamente aperte le indagini il sistema le insabbia rapidamente. Non vengono quasi mai presentate accuse contro i coloni che danneggiano i palestinesi, e quelle che vengono stilate di solito citano reati minori, con sanzioni simboliche comminate nel raro caso di una condanna.

Non è una novità. La violenza commessa dai coloni contro i palestinesi è stata registrata fin dai primi giorni dell’occupazione in innumerevoli documenti e dossier governativi; migliaia di testimonianze di palestinesi e soldati; libri; rapporti di organizzazioni palestinesi, israeliane e internazionali per i diritti umani e migliaia di storie dei media. Questa documentazione ampia e coerente non ha avuto praticamente alcun effetto sulla violenza dei coloni contro i palestinesi, che da tempo è diventata parte integrante della vita sotto l’occupazione in Cisgiordania.

Questa politica ha lasciato i palestinesi senza alcuna protezione, negando loro persino il diritto di difendersi dalle persone che invadono le loro case. Quando i palestinesi cercano di respingere l’attacco dei coloni, anche lanciando pietre, i soldati che fino a quel momento erano rimasti a guardare o avevano partecipato all’attacco sparano contro di loro lacrimogeni, granate stordenti, proiettili di metallo rivestiti di gomma e persino proiettili veri. In alcuni casi i palestinesi vengono anche arrestati e alcuni vengono incriminati.

Lo Stato legittima non solo la violenza contro i palestinesi ma anche le conseguenze di questi atti, consentendo ai coloni di rimanere sulla terra che hanno sottratto con la forza ai palestinesi. L’esercito proibisce ai palestinesi di entrare in quelle aree e lo Stato sostiene pienamente gli insediamenti coloniali realizzati su di esse. Decine di avamposti, anche agricoli, costruiti senza permesso ufficiale vengono lasciati in piedi, mentre Israele fornisce sostegno attraverso i ministeri, la Divisione per gli Insediamenti dell’Organizzazione Sionista Mondiale e i consigli regionali in Cisgiordania. Inoltre lo Stato sovvenziona gli sforzi finanziari negli avamposti coloniali, comprese le strutture agricole, fornisce sostegno ai nuovi agricoltori e alla pastorizia, assegna l’acqua e difende sul piano giuridico gli avamposti coloniali nel caso di petizioni a favore della loro rimozione.

Così è iniziato il trasferimento forzato, ed è così che Israele continua ad impegnarsi per rendere miserabile la vita di chi abita nelle comunità situate nelle aree ambite, fino al punto che non possono più restarvi e le abbandonano, lasciando le loro case e la loro terra allo Stato. Questa politica viene attuata utilizzando due binari paralleli. Da un lato, sotto l’egida delle ordinanze militari, dei consulenti legali e della Corte Suprema lo Stato sfratta i palestinesi dalle loro terre. Sull’altro binario i coloni usano la violenza contro i palestinesi, aiutati e incoraggiati e talvolta con la collaborazione delle forze statali. Questa politica ha portato al trasferimento forzato di almeno sei comunità, ma molte altre in tutta la Cisgiordania sperimentano la stessa brutalità e sono sotto minaccia immediata di espulsione.

Questa è una politica illegale che implica per Israele il crimine di guerra del trasferimento forzato. Il diritto internazionale, che Israele è obbligato e si è impegnato a rispettare, vieta il trasferimento forzato degli abitanti di un territorio occupato, indipendentemente dalle circostanze. Il fatto che questo caso particolare non comporti che i soldati arrivino nelle case degli abitanti e li costringano fisicamente ad andarsene è irrilevante. Creare un ambiente coercitivo che non lasci agli abitanti altra scelta è sufficiente per ritenere Israele responsabile di questo crimine.

Queste comunità non vengono costrette a sfollare a causa di disastri naturali o altre circostanze inevitabili. È una scelta che il regime dell’apartheid sta facendo per realizzare il suo obiettivo di Cin tutta l’area compresa tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questo regime considera la terra come una risorsa destinata esclusivamente al popolo ebraico, e quindi la terra viene utilizzata quasi esclusivamente per lo sviluppo e l’espansione delle colonie ebraiche esistenti e per la creazione di nuove.

Pertanto opporsi ai trasferimenti in corso è un dovere e, ovviamente, non vi è alcun obbligo di continuare a collaborare all’attuazione delle politiche che li guidano. Segmenti crescenti dell’opinione pubblica israeliana hanno recentemente dichiarato il loro rifiuto di prestare servizio nell’esercito in un Paese non democratico. Non c’è niente di più degno del rifiuto ad essere partecipi nell’esecuzione di un crimine di guerra e nell’attuazione di una politica di trasferimenti.

Traduzione dall’inglese per Zeitun.info di Aldo Lotta.

Gaza-Electronicintifada.net. Di Ruwaida Amer. (Da Zeitun.info). Khitam Salim non riesce a preparare il pranzo che i suoi figli dovrebbero portare a scuola.

Da quando il marito è morto di leucemia quattro anni fa è una mamma single con tre bambini che frequentano la scuola elementare a Rafah, la città più meridionale di Gaza. La scuola, gestita dall’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati Palestinesi (UNRWA), non riesce a fornire i pasti ai suoi studenti, che quindi devono portarsi dei panini da casa o comprare da mangiare alla mensa.

Per il pranzo dovrebbero spendere quasi un euro al giorno, una somma che la loro mamma non può permettersi.

“Nessuno mi aiuta,” dice Salim, che è disoccupata e dipende dall’assistenza sociale. “Le condizioni in cui ci troviamo sono molto difficili. I bambini vedono i loro compagni comprare da mangiare durante l’intervallo e non farlo ha un effetto psicologicamente negativo su di loro.”

Faris Qishta ha cinque figli, tutti frequentano le scuole dell’UNRWA.

Avrebbe bisogno di soldi per comprare le uniformi e il cibo e dice che non riesce a farlo.

Se non fosse per i pacchi di aiuti alimentari che riceve, dice che “la mia famiglia sarebbe morta di fame”. Tuttavia gli aiuti non comprendono i pasti scolastici.

Qishta, che faceva il taxista, ora è disoccupato.

“Sono sempre alla ricerca di lavoro anche per pochi shekel per soddisfare le necessità di base dei miei bambini,” aggiunge. “Ma non riesco a trovare niente. I miei figli sono pieni di sogni e quando me li raccontano mi intristisco. Non so se il loro sarà un futuro migliore o se continuerà come ora.”

A Gaza l’UNRWA gestisce una rete di 288 scuole, con circa 300.000 studenti.

Niente colazione.

Migliaia di questi bambini vanno a scuola senza colazione e senza soldi per comprarsi da mangiare durante la giornata. Dato che non hanno una dieta appropriata, molti non riescono a concentrarsi adeguatamente durante le lezioni.

L’UNRWA gestiva un programma di pasti gratis nelle sue scuole, ma per limiti di bilancio, il programma generale per le scuole è stato interrotto nel 2014 e ora li offre solo in casi particolari.

Da allora è stata costretta a fare dei tagli di spesa a causa di una grave crisi dei finanziamenti.

Sebbene sia cominciata prima, la crisi si è acutizzata con la presidenza USA di Donald Trump che, per ingraziarsi una lobby filoisraeliana estremista, introdusse tagli drastici agli aiuti all’UNRWA.

Gli USA hanno adottato una posizione più favorevole nei confronti dell’agenzia da quando è arrivato alla Casa Bianca Joe Biden, il suo successore.

Ciononostante i contributi USA sono diminuiti se li si considera su un periodo più lungo: nel 2022 ammontavano a $344 milioni, meno dei $365 che dava annualmente prima dei tagli di Trump nel 2018.

Difficoltà di finanziamento.

In tale contesto le difficoltà finanziarie dell’UNRWA restano gravissime.

L’agenzia offre servizi sanitari ed educativi a un totale di circa 6 milioni di rifugiati palestinesi nella Cisgiordania occupata e a Gaza, in Giordania, Siria e Libano.

Facendo affidamento su donatori internazionali l’UNRWA quest’anno avrebbe avuto bisogno di un finanziamento di $1,75 miliardi, di cui ad agosto era stato raccolto solo il 44%.

Philippe Lazzarini, commissario generale dell’UNRWA, all’inizio di questo mese ha dichiarato che l’agenzia ha bisogno di $170-190 milioni “per fornire i servizi essenziali fino alla fine dell’anno.” Altri $75 milioni sono necessari “per continuare a fornire gli aiuti alimentari salvavita a oltre metà della popolazione di Gaza.”

Secondo gli ultimi dati disponibili, Gaza, sottoposta dal 2007 a un blocco israeliano totale ha un tasso di disoccupazione del 46%.

Said Khalid, 10 anni, frequenta la quinta elementare in una scuola dell’UNRWA nel campo profughi Beach a Gaza City.

La sua famiglia non è riuscita a comprargli l’uniforme nuova e il materiale necessario per la scuola alla riapertura dopo le vacanze estive, e inoltre non ha i soldi perché si compri da mangiare alla mensa.

“So che mio papà non è avaro,” dice Said. “Se avesse i soldi me ne darebbe un po’ così potrei comprare le cose come fanno i miei compagni di classe, ma lui non ha un lavoro.”

Iyad Zaqout dirige un dipartimento di salute mentale dell’UNRWA.

Ha notato una crescente riluttanza dei bambini a parlare dell’impatto della povertà con i loro counselor. “Alcuni provano un senso di vergogna a rivelare le durissime condizioni in cui vivono le loro famiglie,” dice.

Sarah Jaber, 9 anni, fa la quarta elementare nel campo profughi di Jabalia. Il padre è un falegname, ma è disoccupato da anni.

“Chiedo sempre alla maestra se posso stare in classe durante gli intervalli,” dice. “Non voglio vedere gli altri mentre comprano alla mensa, mi fa sentire triste.”

Ruwaida Amer è una giornalista che si trova a Gaza.

(Foto: 17 May 2021 © 2021 UNRWA Photo By Mohamed Hinnawi.

https://www.unrwa.org/newsroom/photos/displaced-palestinians-seek-shelter-unrwa-schools-gaza).

Traduzione dall’inglese per Zeitun.info di Mirella Alessio.

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