Report dell'incontro con Michele Giorgio a Milano
LA “CRISI” DELLA “SOLIDARIETÀ” CON LA PALESTINA
Nell'ambito della solidarietà con la Palestina, a livello sia nazionale sia internazionale, ormai da tempo si riscontrano difficoltà nel creare una base condivisa da cui partire e su cui lavorare. Riteniamo che questo fenomeno sia una naturale conseguenza delle plurime visioni che della Palestina hanno gli stessi palestinesi, divergenza ancor più evidente se si guarda ai vertici delle classi dirigenti.
A nostro avviso è fondamentale comprendere che la diversità in essere alla stessa compagine politica attuale non sarà mai assottigliata, né mai porterà ad una riconciliazione, proprio perché costituita da leadership che non scelgono liberamente la linea politica da seguire, bensì sottostanno ad altre forze che ne veicolano i progetti, quindi le scelte.
Questo porta ad un inevitabile indebolimento del movimento di lotta per la liberazione della Palestina, in tutte le sue forme e dovunque si manifesti.
QUINDI, CHE FARE?
Abbiamo approfittato della presenza di Michele Giorgio, in Italia in tour per la presentazione del suo nuovo libro, per fare un primo passo ed organizzare un incontro a Milano in cui discutere di tali tematiche e durante il quale presentare delle proposte da analizzare e su cui confrontarsi. Michele Giorgio è stato per noi una fonte di informazione importante, perché da anni riporta meticolosamente e con coraggio notizie che confermano il disegno politico palestinese di cui in parte si è accennato sopra.
L'incontro, che è stato necessario rimandare a causa dell'ultima operazione militare israeliana su Gaza, che ha visto naturalmente Michele impegnato in prima fila per testimoniare l'ennesimo orrore in atto, si è tenuto l'11 dicembre 2012 al CSA Vittoria. Alla serata hanno partecipato decine di organizzazioni e attivisti, che hanno condiviso la necessità di fare chiarezza sulla situazione palestinese, ma anche italiana, nella quale si lavora.
I primi argomenti affrontati con il supporto di Michele hanno riguardato la divisione della leadership palestinese, voluta e sostenuta dalle potenze che detengono il controllo dell'economia palestinese e che, proprio perché ne finanziano i governi, ne determinano anche la linea politica. Tale divisione è sempre più evidente, tanto da diventare ormai la condizione dell'eventuale normalità delle "nuove Palestine".
Questo rischio emerge con forza, a tal punto che le nuove generazioni palestinesi (di cui fanno parte anche intellettuali, universitari e gruppi progressisti) denunciano per prime la pericolosità della scelta di mantenere ed alimentare tale divisione. Quest'ultima sta infatti viziando "concetti chiave" come la definizione stessa di "popolo palestinese", ormai sempre più spesso identificato con i soli palestinesi che vivono in Cisgiordania e a Gaza - escludendo quindi di concetto tutti i palestinesi che vivono nei territori occupati nel '48 e nel '67 e i profughi che vivono fuori dalla Palestina - ed anche la stessa identificazione di cosa sia "la Palestina", ridotta ormai ad uno stato di apartheid in cui cittadini vivono in bantustan circondati da un muro e da colonizzatori.
Le nuove generazioni denunciano inoltre l'impossibilità di creare realmente una unione perché tale divisione nasce da progetti del tutto differenti: da un lato la scelta dell'autorità palestinese di portare avanti trattative con l'occupante al fine di provare ad ottenere qualche riconoscimento che di fatto non giova per nulla alla popolazione ma permette a pochi di tenere una posizione di controllo e prestigio, lasciando ad Israele il via libera per l'attuazione del suo progetto di completa annessione della Cisgiordania e dell'instaurazione di uno stato di apartheid. Dall'altro lato, il tentativo di fare della Striscia di Gaza un emirato controllato e gestito completamente da accordi tra la potenza israelo-statunitense e la Fratellanza Musulmana, che ha preso il potere (o che è stata fatta emergere per convenienza ed in maniera strumentale) a seguito delle rivolte arabe, di cui Hamas è una costola.
IL PROGETTO DELL'ANP
Il progetto dell'ANP nasce compromettendo importanti istituzioni palestinesi, quali ad esempio l'OLP, che nessuna delle due forze politiche attualmente al governo in Cisgiordania e a Gaza (*) ha interesse a riorganizzare, perché il progetto dell'OLP, che rappresenta tutti i palestinesi nel mondo e che ha come unico obiettivo la liberazione nazionale, risulta incompatibile con gli altri due. In aggiunta, le false aspettative che si creano l'ANP e i suoi rappresentanti stanno innescando un processo di delegittimazione dell'OLP che, tanto per fare un esempio, era già un osservatore membro delle nazioni unite.
Il progetto dell'ANP si struttura sulla volontà di proseguire i trattati di pace, senza i quali cesserebbe di esistere. Per portare avanti tale processo deve sottostare ad altri tipi di accordi, che sono quelli sulla sicurezza e sul controllo doganale, che si traducono da una parte nell'assicurarsi la "pacificazione sociale" (che garantisce il controllo sulla popolazione) e dall'altra nel consegnare completamente la sua sussistenza economica alle dipendenze dell'occupante. Dal momento in cui un impianto politico è governato da un progetto economico controllato dalla forza dominante, è indubbio che si rimarrà sempre sotto scacco.
In questo contesto, ci chiediamo, con quali libertà si muove l'Autorità Palestinese? È evidente che la sua libertà d'azione sia pressappoco nulla e che inevitabilmente, secondo il nostro punto di vista, inneschi delle dinamiche che favoriscono il progetto sionista e che vanno dunque a sgretolare quei valori fondamentali che sono la resistenza e la lotta contro l'occupazione, legittimata sia dalla legge internazionale sia politicamente da chiunque sostenga il diritto all'autodeterminazione. Lo stesso presidente dell'ANP ha espresso in più occasioni la volontà di creare e mantenere una forma di pacifismo sociale che non preveda alcun tipo di insurrezione popolare, schierando all'occorrenza la stessa polizia palestinese contro il proprio popolo.
Bisogna inoltre aggiungere che come tutte le forze restauratrici, per detenere questa forma di potere sulla popolazione l'autorità palestinese lavora a tutti i livelli societari, creando dei processi di normalizzazione che non solo si insinuano in tutte le classi sociali, ma che attraversano trasversalmente la cultura di un intero popolo, influenzandone la letteratura, il cinema, le tradizioni, che in questo modo diventano anch'essi promotori del processo di normalizzazione. In parallelo, diventa sempre più di nicchia la cultura della resistenza, della lotta e dell'autodeterminazione, cultura che dovrebbe appartenere a tutto il popolo, proprio perché tutti vivono sotto occupazione.
(*) L'ANP, che è un'istituzione nata dagli accordi di Oslo e che rappresenta i palestinesi che vivono nei territori occupati di Gaza e della Cisgiordania, è controllata dalla forza politica Fatah. La simbiosi che si è venuta a creare tra il partito e l'istituzione è spesso condannata da alcuni militanti di Fatah perché rischia di diventare pericolosa per l'immagine stessa del partito.
IL PROGETTO DI HAMAS
D'altra parte, pur con un progetto diverso, a Gaza la leadership lavora sulla popolazione con le stesse dinamiche reazionarie che hanno lo scopo di raggiungere una omologazione di pensiero. Hamas si era presentato come forza alternativa agli ultimi vent'anni di accordi a partire da Oslo. A molti inizialmente è parsa come una vera forza rivoluzionaria, ma è bastato poco per capire quali fossero gli interessi che poi avrebbe fatto prevalere... inutile dire che non si trattava degli interessi comuni del popolo palestinese.
In passato la resistenza a Gaza è sempre stata portata avanti da tutte le fazioni presenti sotto un unico coordinamento. Man mano che Hamas emergeva politicamente a livello internazionale e durante tutte le primavere arabe (che hanno visto salire al potere i diretti amici di Hamas, ossia i Fratelli Musulmani), diminuiva la libertà di movimento delle forze di resistenza presenti nella striscia di Gaza, con lo scopo di unificare la linea da adottare proprio perché l'interesse era avere il controllo ed il potere assoluto di quello che sarebbe stato, probabilmente previsto anche da un punto di vista strategico sionista, un possibile emirato. Va da sé che questo progetto è voluto e sostenuto anche economicamente da chi "sta dietro" Hamas, che diventa così uno strumento in mano a chi ha delineato un disegno dell'area che sicuramente non prevede la liberazione della Palestina così come storicamente inteso.
Anche Hamas, nell'approcciare ad un processo di unificazione nazionale, vive quindi le stesse contraddizioni dell'ANP, perché si scontrerebbe con un progetto contraddittorio rispetto a quello che sta portando avanti.
È in questo contesto che va letta l'ultima escalation militare israeliana mediaticamente rilevante contro la Striscia di Gaza (novembre 2013). Sono molteplici i motivi che hanno potuto portare a questa operazione: è plausibile pensare che durante una campagna elettorale ai candidati sionisti piaccia bombardare i palestinesi; è altresì plausibile pensare che l'industria bellica israelo-statunitense debba aumentare i profitti testando il suo arsenale sul laboratorio che è la Striscia di Gaza; è ancora plausibile pensare, e questo è stato anche dichiarato da Israele, che di fronte ad un nuovo assetto creatosi in Medio Oriente fosse necessaria una deterrenza basata sulla forza militare. Ma vanno considerati anche altri elementi importanti, alcuni avvenuti a ridosso dell'operazione militare - come le visite di alcuni importanti capi di stato a Gaza -, altri avvenuti durante l'attacco - tra tutti l'assassinio di un comandante delle forze militari di Hamas che stava portando avanti trattative di tregua con Israele e i tentativi di Hamas di bloccare qualsiasi forma di risposta agli attacchi sionisti che non fosse decisa autonomamente. Ancora, va ricordato il ruolo degli usa, che si sono immediatamente mobilitati per far sì che l'Egitto diventasse il garante delle trattative di tregua tra Hamas e Israele. Alla luce di tutti questi elementi si comprende come ancora una volta a pagare con il sangue sia stato il popolo palestinese, per il ripristinarsi di alcuni accordi tra le forze della regione seppur con delle novità, quale ad esempio il passaggio del controllo di Gaza all'Egitto (non è un caso che questi, pochi mesi prima dell'operazione, abbia bombardato i tunnel che rappresentano gran parte dell'economia palestinese per poi dichiarare di aprire il valico; è chiaro che voleva presentarsi all'appello di fronte a stati uniti ed Israele pronto a poter garantire il pieno controllo della striscia di Gaza, in accordo con i sionisti che attraverso un embargo chiudono il resto delle frontiere).
Alla fine di questo ennesimo massacro, uno degli accordi relativi al cessate il fuoco (inutile dire, più volte violato dalla forza occupante) rivendicato da Hamas è stato quello di aumentare il confine marittimo a cui i pescatori gazawi hanno accesso da 3 a 6 miglia: il sindacato dei pescatori ha ritenuto tale "conquista" una farsa perché entro le 6 miglia il mare di Gaza non offre quasi pesci (la piattaforma rocciosa ricca di pesce si trova a 9 miglia dalla costa), aggiungendo che comunque l'esercito sionista spara contro i pescatori anche a meno di 2 miglia e che comunque il diritto internazionale prevede che entro le 12 miglia si tratti di acque palestinesi.
Cos'è allora la Palestina, per Hamas? Una striscia di terra con una porta sull'Egitto?
IL TERZO PROGETTO
Ai due descritti sopra, si oppone un terzo progetto, di cui si è discusso durante l'incontro: si tratta del progetto storico di liberazione, che prevede l'autodeterminazione del popolo palestinese e il riconoscimento dell'OLP come unico organismo rappresentante.
Ci sono ancora molte forze che sostengono tale disegno, in particolare quelle progressiste di sinistra, molti comitati popolari ed organizzazioni non governative. Si riconoscono al Fronte Popolare, attualmente la più grande forza di sinistra, la determinazione e la lotta nel cercare di ricreare l'unità tra i palestinesi, ribadendo la legittimità ad intraprendere ogni forma di resistenza contro l'occupazione. Il FPLP è sempre attento alle voci dei prigionieri (che richiamano anch'essi all'unità) e alla loro lotta, divenuta fondamentale negli ultimi tempi, e continua a sostenere il diritto al ritorno come una delle chiavi principali per la risoluzione del conflitto.
Si riconosce tuttavia alle stesse forze progressiste il demerito di aver perso in parte la capacità organizzativa e propositiva, lasciando spazio ad altre forze, senza però dimenticare il complesso periodo che vive la sinistra a livello internazionale, che ha inevitabilmente contribuito alle difficoltà di quella palestinese.
EVIDENZE...
I fatti riportati da Michele Giorgio sono stati un prezioso contributo che ci ha aiutato ad avere una visione quanto più possibile esaustiva della odierna condizione socio-politica.
Le testimonianze circa i recenti avvenimenti dimostrano che non è possibile reggere contraddizioni così forti tra chi vive un'occupazione, con tutto ciò che implica, e chi tenta di normalizzarla, come parte della leadership palestinese. In Cisgiordania sono sempre più frequenti gli scontri tra la popolazione e l'esercito occupante e quotidianamente si registrano morti o feriti. A volte, inoltre, gli scontri vedono la presenza della stessa polizia palestinese a reprimere le manifestazioni. Lo stesso accade a Gaza, dove si sta cercando di istituire una vera e propria legge islamica.
Queste forze si dichiarano antisioniste? A questo punto è chiaro che definirsi antisionisti non sia sufficiente per sconfiggere l'ideologia sionista: finché il progetto politico resta legato a dinamiche di compromessi e corruzioni, che si vengono a creare nel momento in cui la politica si lega indissolubilmente ad un sistema economico governato dal capitale, si tenderà sempre a preservare l'interesse privato rispetto a quello collettivo. Politiche liberiste e capitaliste rappresentano con sufficiente evidenza la vulnerabilità di chi non riesca a rimanere fedele ad un programma politico, diventando quindi facilmente assoggettabile ad altri poteri, inevitabilmente a danno della popolazione e di chi lotta per gli interessi collettivi. Ecco perché anche la lotta per la liberazione della Palestina va letta in un'ottica di conflitto di classe, dove la “working class” può essere identificata con gli occupati.
In tali dinamiche spesso si possono intravedere delle analogie con il ruolo svolto dalla DC italiana nel secondo dopoguerra: da una parte, a Gaza, l'utilizzo della religione come strumento per innescare capillarmente assistenzialismo caritatevole, per garantire pace sociale e politica all'interno e rimanere in una posizione subalterna rispetto alla potenza che finanzia e usa questa forza per i suoi scopi; dall'altra, in Cisgiordania, fenomeni di clientelismo e corruzione per detenere attraverso una rete di rapporti e di figure strategiche un controllo sulla popolazione anche, se necessario, repressivo. Rispetto alla pericolosità della politica del compromesso, invece, si può sottolineare un parallelismo con la scelta fatta dal Partito Comunista Italiano negli anni '70, che "a suon di rinunce" ha denaturato la sua stessa essenza: il risultato è che oggi il comunismo non è quasi più presente nella compagine politica italiana e la società ha perso i suoi fondamentali diritti, come quelli dei lavoratori.
Con queste loro politiche Hamas e Fatah non riescono perciò ad essere un fronte antisionista, proprio perché piegate a logiche liberiste e di compromesso che escludono per antonomasia l'interesse collettivo. Di contro il progetto progressista sostenuto dalle forze di sinistra ha come prerogativa l'autodeterminazione ed esclude tutto ciò che possa comprometterla. Il potere imperialista lo sa e per questo preferisce appoggiare le altre forze, che diventano le prime minacce al pensiero progressista.
DALLA PALESTINA ALL'ITALIA
Crediamo che la Palestina sia diventata (o sia sempre stata) un laboratorio di sperimentazione dell'oppressione per mano israeliana, i cui modelli vengono riprodotti in altre parti del mondo, dove l'influenza dell'ideologia sionista ha una certo peso; questo vale naturalmente anche per l'Europa, con la quale Israele ha dei saldi legami militari, economici e culturali.
Non è un caso se in Italia si ritrovano analogie con i metodi repressivi sionisti ad esempio nei CIE, nella militarizzazione della Val Susa, nell'uso della violenza da parte dello stato in situazioni di disagio sociale, che si traduce in manifestazioni e rivolte, e nella privazione dei diritti dei lavoratori da parte delle politiche dei capitalisti italiani come, tra gli altri, Marchionne e Caprotti.
Di fronte alla stessa repressione si è quindi trasversalmente parte della stessa lotta e dello stesso conflitto sociale, che però in circostanze diverse riconosciamo come conflitto di classe, ma all'interno del quale spesso non riusciamo a riconoscerci dalla stessa parte. Rispetto al contesto palestinese questo diventa un problema importante perché, creando delle traduzioni private e decontestualizzate rispetto alla forma più giusta di resistenza, si va a ledere la resistenza stessa, non riconoscendo che tutti si stia lottando, con metodi diversi, per lo stesso scopo. Questo è ciò che avviene tra chi sostiene la "non violenza", tra chi, cioè, si annovera il dritto di legittimare come idonee e uniche possibili le sole pratiche non violente.
La resistenza, invece, andrebbe accettata e sostenuta in quanto tale, prescindendo dalle forme in cui si declina in base al contesto, al periodo storico, alle capacità organizzative e al backgroud culturale di chi la pratica e che la rielabora anche a seconda delle forme di oppressione che subisce.
Così come avvenuto per gli accordi di Oslo (cui ci si è aggrappati come ad un'ancora che ha incagliato i palestinesi - e non solo - a quell'unica visione, mentre l'occupazione proseguiva a gonfie vele) si rischia di ritrovarsi ingabbiati in una nuova illusione. La non violenza, se non inserita in un piano di resistenza di più ampio spettro, non rappresenta in alcun modo la soluzione del conflitto. Se dal canto suo può rivendicare delle “conquiste” in determinate situazioni e contesti, il bilancio rispetto all'occupazione risulta completamente in perdita: le “conquiste” israeliane sono progredite, anche a fronte della non violenza, senza restrizioni di situazioni o contesti.
Il rispetto per la resistenza in tutta la sua essenza, in cui è intrinseco il valore della lotta armata contro un esercito occupante, deve restare un caposaldo per chi si schiera al fianco degli occupati, i palestinesi.
Per quanto riguarda l'Italia, grazie ai compagni del Forum Palestina è stato portato avanti negli scorsi anni un importante lavoro sull'antisionismo, che tutt'oggi continua a maturare e ad estendersi. Riteniamo tuttavia doveroso domandarci se si riesca ad individuare chi sono i sionisti, chi porta avanti i progetti sionisti, in quali e quante forme si esprima tale potere, qual'è la sua la sua estrazione e natura. È chiaro che siamo tutti schierati contro l'ideologia sionista, razzista e capitalista, ma per fermarla è necessario individuarla in tutte le forme in cui si esprime, proprio perché è indubbio che sia presente anche nei movimenti di solidarietà con la Palestina.
Da ultimo, ma non per importanza, sottolineiamo la necessità di definire e caratterizzare la natura del fronte antisionista, che secondo noi dovrebbe declinarsi nelle dinamiche di lotta e resistenza su tutto il territorio italiano, in denuncia e contro coloro che praticano politiche di sostengono al sionismo.
UN UNICO FRONTE DI LOTTA
Noi antirazzisti, comunisti e anticapitalisti, militanti di sinistra, ci riconosciamo dalla stessa parte nel conflitto sociale, che passa dall'occupazione palestinese alla repressione italiana, nel ritenere quella al sionismo una lotta che debba avere una matrice anticapitalista, collocata come lotta di classe, e che possa diventare un fronte antimperialista con una visione alternativa del mondo.
Per questo proponiamo una piattaforma di lavoro condivisa in sostengo alla lotta palestinese che si basi sui seguenti punti:
- l'Autodeterminazione dei popoli
- l'applicazione del Diritto al Ritorno per tutti i profughi e la Liberazione di tutti i prigionieri politici
- la fine dell'Occupazione e dell'Apartheid sionista
- il sostegno al Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni per il riconoscimento del diritti dei palestinesi
- l'interruzione di ogni trattativa con l'occupante fino a quando Israele non rispetterà tutte le Risoluzioni Internazionali che continua a violare
- il totale sostegno alla Resistenza contro l’occupazione
Di fronte ad un'ingiustizia non ci sarà mai alcuna forma di pacifismo sociale che possa reggere, ma ci si ritroverà sempre all'interno di un conflitto, nel quale per poter resistere bisogna organizzarsi e sostenersi (e, forse, prima di tutto imparare a riconoscersi) attraverso la condivisione e la diffusione della cultura della resistenza, fino a quando non si instaurerà un modello sociale che non preveda la stratificazione in classi. Per noi la Palestina, va da sé, fa parte di questa lotta di classe, e va altresì da sé che sia necessario sostenere la sinistra palestinese (di cui fanno parte anche i comitati di resistenza e le organizzazioni popolari), della quale condividiamo le idee ed i valori, e che richiama all'unità di tutti i palestinesi, laddove le politiche delle fazioni al potere risultano fallimentari alla luce di un progetto di liberazione.
Crediamo che sostenere tale progetto possa essere un sostegno per tutta la sinistra internazionale, che risente sicuramente dell'indebolimento del progressismo arabo, colpito dalle nuove pianificazioni coloniali e imperialiste.
Tuttavia sappiamo che all’interno del movimento di solidarietà con la Palestina vi sono state e vi sono tuttora divergenze politiche rispetto all'analisi della situazione nazionale ed internazionale: per questo crediamo, oggi più che mai, che si possa e si debba lavorare assieme, tralasciando i dissensi derivanti ad esempio da controversie personali e partendo da una piattaforma comune che abbia alla base la condivisione di alcuni elementi cardine come l’antifascismo e l’antisionismo.
Ci auguriamo di condividere la consapevolezza che lavorare per la liberazione della Palestina in maniera frammentata favorisca l’occupazione ed i progetti che vanno contro gli interessi dello stesso popolo palestinese. Al contrario, creare un fronte unito su dei valori (richiamati dalla piattaforma sopra proposta) che storicamente rappresentano il senso di giustizia di questa lotta (come sostengono la sinistra palestinese e la società civile) può ambire ad ottenere dei risultati concreti che portino vittoria dopo vittoria alla vera liberazione della Palestina.
Per fine aprile si pensa di organizzare un convegno nazionale per discutere di queste tematiche, nel frattempo porteremo avanti degli incontri, su tutto il territorio, con le realtà sensibili alla causa.
Rete di solidarietà con la Palestina - Milano
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