Osservare la manifestazione svoltasi a Roma domenica 19 febbraio è stato molto utile per comprendere meglio le dinamiche dell’opposizione siriana all’estero ed anche le evoluzioni intervenute nella linea politica di altre organizzazioni arabe, a partire da Hamas.
La manifestazione era stata indetta dai referenti italiani del Consiglio Nazionale Siriano e va detto subito che una parte dell’opposizione siriana – segnatamente, quella che si riconosce nel Coordinamento Siriano per il Cambiamento Democratico – non vi ha preso parte, anche se alcuni spezzoni del corteo, come quello milanese, hanno visto la presenza di Siriani di ogni tendenza.
I numeri, innanzitutto: da Piazzale dei Partigiani alla Bocca della Verità hanno sfilato almeno 2.000 persone, in grandissima parte Siriani, ma con corpose presenze di comunità come quelle egiziana e tunisina. Molti anche i Palestinesi del movimento islamico. Infine, alcuni esponenti Berberi e Tuareg. Secondo gli ultimi dati disponibili (risalenti al 2010), i Siriani residenti in Italia sono esattamente 4.029*, il che significa che quasi uno su due il 19 febbraio è sceso in piazza a Roma. Piacerebbe a molti riuscire a portare in piazza una simile percentuale dei propri ambiti di riferimento.
La maggior parte dei Siriani è arrivata da tutta Italia: i pullman giunti a Roma sono stati venticinque. Pochi gli Italiani, nonostante l’adesione – evidentemente, solo formale – di colossi organizzativi come la CGIL e l’ARCI; la sola presenza italiana visibile è stata quella degli attivisti di Socialismo Rivoluzionario.
La sensazione di essere abbandonati dal mondo ma di dover portare fino in fondo la propria rivoluzione è lo stato d’animo dominante nella comunità siriana. Nonostante le molte ambiguità del Consiglio Nazionale Siriano sulla questione degli interventi “umanitari” – un giorno invocati e l’altro respinti – a me è apparso evidente che i Siriani ad un intervento sul modello libico non ci pensano proprio, per una serie di motivi che non hanno nulla di ideologico, ma sono molto più seri e concreti di tante analisi “geopolitiche” che sembrano affascinare alcuni settori della sinistra italiana. In primo luogo, esiste la consapevolezza che un intervento come quello che ha subito la Libia porterebbe ad una situazione di devastazione, frammentazione e destabilizzazione che nessuna persona sana di mente può auspicare; secondariamente, appare chiaro a tutti – tranne che a qualche paranoico complottista italiano – che nessuna potenza occidentale, U.S.A. compresi, è intenzionata a rischiare uno scontro con Russia e Cina, che hanno mostrato in maniera inequivocabile la propria indisponibilità a consentire un “regime change” teleguidato dall’estero e contro i loro interessi; in terzo luogo, banalmente, sono quasi sei mesi che il Segretario Generale della NATO, il danese Rasmussen, dichiara pressoché quotidianamente che l’organizzazione del Patto Atlantico non ha la minima intenzione di intervenire in Siria**, e tantomeno in Iran, in sintonia con analoghe affermazioni da parte dell’Unione Europea e della Turchia. Insomma, ad evocare un intervento armato in Siria sembra siano rimasti solo i regnanti sauditi, l’ormai celebre Emiro del Qatar (quello che – secondo qualcuno dei paranoici di cui sopra – si spinge fino a finanziare la Freedom Flotilla, pur di stornare l’attenzione dalle sue manovre in Libia, prima, ed ora in Siria) ed i nostri complottisti, che rimarrebbero terribilmente delusi nel caso non ci fosse una nuova guerra. Piccola parentesi esplicativa: lo so che questa storia dell’Emiro del Qatar sembra una barzelletta, ma c’è gente che lo dice seriamente, senza nemmeno rendersi conto di scimmiottare le farneticazioni di fascisti, rossobruni ed altre frattaglie ultrareazionarie***: questo mi preoccupa, ma ci tornerò in maniera più approfondita quanto prima.
Dunque, i Siriani sono consapevoli della loro solitudine rispetto ai potenti del mondo, e della debolezza di quei movimenti che dovrebbero sostenere, per così dire, con naturalezza la loro rivoluzione. Non sembrano particolarmente crucciati per questo. Un importante esponente dell’Unione delle Comunità Islamiche in Italia, con il quale abbiamo collaborato molte volte nelle iniziative di solidarietà con i Palestinesi, mi ha detto: “Alcuni nostri fratelli italiani sono schierati con il regime di Assad. Lo sappiamo bene”. Nelle sue parole non c’erano rabbia o rancore, ma amarezza si, e molta.
Del resto, proprio fra gli islamisti in piazza il 19 febbraio, ce n’erano molti che, fino a poco tempo fa, di criticare il regime siriano non volevano nemmeno sentir parlare. Mi riferisco ai Palestinesi islamisti, in tutta evidenza “liberati” dall’abbandono da parte dei vertici di Hamas del quartier generale di Damasco, per destinazione tuttora ignota. Lo sganciamento di Hamas dal rapporto con il regime del clan Assad era tanto prevedibile quanto inevitabile: nessuna organizzazione popolare può pensare di mantenere un minimo di consenso se si dimostra incapace di prendere le distanze da un regime che massacra la propria gente. Hamas è già in difficoltà per la sua incapacità di delineare un percorso politico credibile sia per Gaza sotto assedio che per la Cisgiordania sempre più giudeizzata, quindi non può permettersi di rimanere legata ad un regime che ormai tutti gli Arabi detestano, non diversamente da quanto si percepiva mesi fa nei confronti del regime del clan Gheddafi in Libia.
La mobilitazione delle comunità islamiche per la manifestazione del 19 è stata evidente, ma questo non vuol dire che in piazza ci fossero quegli integralisti alla cui immagine i sionisti amano associare i Palestinesi e tutti gli Arabi. Per la verità, a parlare addirittura di Salafiti in piazza non sono stati i sionisti, ma qualche amico del regime di Assad, a dimostrazione che al peggio non c’è mai fine. Io quella piazza l’ho vista e c’erano persone comuni, adulti e giovani, ragazzi e ragazze, con l’hijab o con i capelli al vento.
Gli adoratori della tesi del complotto americano-sionista-saudita-qatariota potranno pure dire che i 2.000 in piazza a Roma erano tutte comparse pagate dal solito Emiro del Qatar, non mi stupirebbe. Quando una sedicente giornalista arriva a questionare sull’età esatta dei bambini assassinati dai tagliagole del regime siriano, affermando che l’ONU considera children (bambini) tutti quelli che hanno meno di diciotto anni, viene voglia di associarsi a chi chiede l’abolizione dell’Ordine dei Giornalisti. Una consolazione arriva dalla consapevolezza che i sostenitori “di sinistra” del regime di Assad sono un’eccezionalità tutta italiana, un’entità che suscita, più che l’indignazione, una sorta di bonaria ironia da parte degli attivisti di movimento francesi, inglesi, greci, tedeschi, belgi, spagnoli, canadesi, statunitensi e – naturalmente – palestinesi con i quali interloquisco abitualmente per le iniziative internazionali a fianco del popolo palestinese. Consolatorio, ma pure un po’ seccante: quando compagni stranieri ironizzano sul fatto che solo in Italia sopravvivono e vengono presi sul serio certi ruderi tardostalinisti, mi sento un po’ come quei turisti italiani all’estero che vengono macchiettisticamente apostrofati con la cantilena “Italiano-spaghetti-baffi neri-mandolino-Berlusconi”. Non so se sia più difficile convincere un inglese che il mandolino in Italia non lo suona più nessuno o che Marinella Correggia la tessera da giornalista non l’ha trovata in un pacchetto di patatine.
In conclusione, la manifestazione romana promossa dal CNS ha mostrato tutta la complessità della situazione, ma anche una certezza incontrovertibile: gli esiti della rivoluzione siriana ridisegneranno completamente la mappa geopolitica del Medio Oriente, più ancora di quanto lo abbiano fatto le rivoluzioni ancora incompiute di Tunisia ed Egitto. Mentre mi rallegro per la scarcerazione di Razan Ghazzawi, cui auguro di continuare con forza sempre maggiore la sua battaglia di libertà e giustizia, voglio chiudere questo articolo con le parole scritte dagli attivisti e dai bloggers palestinesi**** in occasione del precedente arresto di Razan, lo scorso dicembre:
“Non dobbiamo essere solo solidali con Razan e gli altri prigionieri, dobbiamo anche affermare che abbiamo lo stesso destino, gli stessi interessi e che la nostra è un’unica lotta. La Palestina non potrà mai essere libera mentre il popolo arabo vive sotto regimi repressivi e reazionari. La strada per una Palestina libera passa per una libera Siria, nella quale i Siriani vivano nella dignità.
Libertà per tutti i prigionieri nelle galere del regime siriano! Lunga vita alla Rivoluzione Siriana, libera dalla dittatura, dal settarismo e dagli interventi stranieri!”
Germano Monti
Feedom Flotilla Italia