“Alle spalle del verde villaggio giordano di Karameh, la terra si alza in impervie colline pietrose dove un campo profughi Palestinese era il quartier generale dei combattenti rivoluzionari palestinesi. Nel marzo del 1968 la forza d’assalto israeliana, nelle prime nebbie del mattino, marciò su Karameh decisa ad eliminare in poche ore lo zoccolo duro della resistenza palestinese. Prima di mezzogiorno tutto era distrutto, ma quelle bande di combattenti armati alla leggera e del loro coraggio furioso, non cedettero ed Israele dovette ritirarsi velocemente, abbandonando veicoli e carri armati. In poche ore la notizia della battaglia si diffuse ovunque e tutti i giovani del mondo cominciarono ad indossare le kefie quadrettate palestinesi, come simbolo della rivoluzione e della forza dei deboli.”
La situazione in Palestina sta peggiorando sempre di più. I media italiani non ne parlano, se non quando sentono di dover prendere posizione in difesa dello Stato d'Israele.
A Gaza è in corso una pesante crisi a diversi livelli: il territorio palestinese vive da mesi senza acqua e senza corrente elettrica per 20 ore al giorno. Il taglio delle forniture dell'energia elettrica e dell'acqua è stato fatto da Israele, sotto richiesta dell'Autorità Nazionale Palestinese. A risentirne sono anche gli ospedali che non riescono a curare adeguatamente i malati e a salvare vite umane.
Decenni di occupazione, aggressioni, assedio e quotidiano stillicidio di uccisioni, arresti, torture di uomini, donne e bambini infliggono indicibili sofferenze al popolo palestinese, alla sua storia e alla sua cultura. Tutto questo può essere definito un genocidio.
Oggi la situazione è, se possibile, ancora più grave perché Israele è riuscito a isolare la Palestina dal resto del mondo: accordi sulla sicurezza dello Stato di Israele, connivenze con l'Egitto che controlla e soffoca una parte del territorio palestinese (Gaza), divisioni tra gli stessi palestinesi, complicità dei paesi occidentali e dei paesi arabi collaborazionisti hanno concretamente peggiorato la condizione del popolo palestinese e vanificato le sue prospettive storiche.
Tutto questo sta portando a percepire la questione palestinese come una questione religiosa o umanitaria, ma non politica, nonostante parliamo di un popolo che subisce un'occupazione tra le più feroci e soffocanti. Ciò avviene nel silenzio e nell'indifferenza di molti, di troppi.
Quale sia la realtà ce lo racconta Michele Giorgio su Il Manifesto in un articolo del 6 agosto 2017, dal titolo “La giovane Gerusalemme”: Cosa vuole dire essere un giovane palestinese a Gerusalemme, gli chiediamo. Nabil ci pensa su qualche secondo. «Vuol dire amare al Aqsa, odiare Israele e disprezzare l’Autorità nazionale palestinese (Anp)». Prosegue poi il giovane intervistato: «L’unica strada è rimanere uniti come nei giorni scorsi quando abbiamo lottato e vinto per al Aqsa. Solo se ci mostreremo un popolo unito potremo difenderci».
Unità e lotta è la giusta indicazione, ma gli attuali dirigenti palestinesi non vogliono sentirne parlare.
Sono passati 10 anni dall’appello che Marwan Barghouti di Fatah, Abdul Khalek el-Natche di Hamas, Ahmad Sa'adat del Fplp, Bassam el-Saadi dello Jihad islamico, Mustafa Badarni del Fronte Democratico hanno sottoscritto senza mai ricevere nessuna risposta, condannati ad essere due volte prigionieri: da parte dell’occupazione e da parte delle organizzazioni esterne.
Noi vogliamo ricordare quell’appello nella sua interezza:
Comunicato dai firmatari del documento della concordia nazionale (documento dei prigionieri) del gennaio 2007
Dalle nostre celle, richiamiamo i nostri fratelli e sorelle, a ricordare l'importanza dell'unità, alla luce della crescente divisione nel seno del popolo. Noi chiamiamo ogni Palestinese a mettere da parte le loro differenze e mettere fine agli scontri in corso. In applicazione di questo, noi condanniamo unanimemente, gli atti di assassinio, sequestri e l'abuso di vandalismi verbali. Queste sono le scintille che portano alla catastrofe e che dobbiamo prevenire a tutti i costi.
O nostro grande popolo, noi chiediamo ai nostri fratelli, agli eroi della lotta armata, di mantenere la purezza delle loro armi, a non diventare strumento per atti di combattimenti interni. Queste armi sono per la salvaguardia del paese e della sua gente, e devono essere, oggi più che mai, puntate contro l'occupante israeliano. E chi punta la sua arma contro il petto del suo fratello palestinese, dimentica il patto d'onore secondo il quale queste armi devono essere usate per resistere all'occupazione. Ogni pallottola sparata da un palestinese che ferisce un altro palestinese, è un passo indietro dalla strada indicata dai nostri grandi martiri, in particolare Yasser Arafat, Ahmad Yassin, Fathi Shiqaqi, e Abu Ali Mustafa. E ancora un passo indietro per quelli che soffrono dentro le carceri dell'occupante israeliano.
O nostro grande popolo, oggi ci appelliamo a te, per unirti a noi nella giornata dello sciopero della fame che sarà domenica 14 gennaio prossimo, per esprimere il desiderio di fermare la catastrofe che sta per cadere su di noi, e vedere la fine di tutti i combattimenti. Questa dovrebbe essere la giornata dell'unità nazionale, che attraversa tutta la nostra terra per arrivare alla nostra diaspora. Nella speranza che in futuro diventa un atto catalizzante per la formazione di un governo d'unità basato sul documento della concorda nazionale dei prigionieri, e per un fruttuoso dialogo fra le diverse fazione.
Lunga Vita all'unità dei palestinesi
Lunga Vita all’unità dei palestinesi, così terminava l’appello dei prigionieri ai dirigenti all’esterno. La loro risposta l’ha reso una tragica ironia e il loro disprezzo che non ha portato nulla di buono per il popolo palestinese. Anzi peggio: ormai molte organizzazioni e attivisti filo-palestinesi hanno fatto la scelta più insipida e vile: adeguarsi all’attuale condizione, tacere, girarsi dall’altra parte e/o far finta di niente. Di denunciare la collaborazione dei dirigenti palestinesi con l’occupazione non se ne parla proprio perché, dicono, è una questione interna nella quale non si deve intervenire, mostrando così sfiducia ed indifferenza verso il popolo palestinese.
In šāʾ Allāh (in arabo: إن شاء الله), se dio vuole, qualcosa sta cambiando perché il popolo palestinese resiste, aldilà dei dirigenti sempre più assimilati ai sionisti che li addestrano e pagano. Sionisti, Stati Uniti e paesi arabi reazionari si sentono liberi di poter compiere qualsiasi nefandezza, per la totale e imbarazzante mancanza della leadership tradizionale palestinese, sotto l'autorità di Abu Mazen, e la situazione socio-economica disastrosa per i palestinesi a Gaza e altrove.
I capitalisti palestinesi accettano il cosiddetto “auto-governo locale”, al fine di garantire i propri meschini interessi, al posto di una reale effettiva indipendenza, anche questo un dato innegabile e che le forze reazionarie palestinesi intendono avallare fino in fondo. La polizia palestinese, addestrata e armata da Stati Uniti e Israele, è sempre al servizio dell’occupazione, nel controllo e nella repressione del loro popolo con arresti e torture che sono all’ordine del giorno e talvolta persino uccisioni. A loro volta i sionisti, complici i governi reazionari arabi ed occidentali, sanno di poter compiere qualsiasi azione aggressiva perché il mondo arabo è frantumato da guerre e disordini sanguinosi. Oggi esiste un campo formato da regimi reazionari arabi schierati palesemente a fianco di Israele per spostare la lotta contro l'Iran.
Al tradizionale campo nemico del popolo palestinese, formato da USA e imperialismo, sionismo e regimi reazionari arabi ed occidentali, oggi aderisce anche il settore palestinese collaborazionista. Questa la realtà, anche quando non ci sono le relazioni pubbliche tra regimi arabi e Israele, per esempio Giordania ed Egitto. La normalizzazione si è intensificata fino al punto che questi paesi etichettano la resistenza come “terrorista”, come abbiamo visto sul giornale saudita ufficiale al-Riyadh. Basti anche ricordare il governo di “sinistra” greco che accoglie festosamente il vero terrorista Netanyahu, e, con lui, firma accordi politici, economici e militari, come nessun governo di destra ha mai fatto.
Oggi non esiste un fronte nazionale palestinese: l’OLP ha perso il senso che ha avuto anni fa e, con la costituzione dell’ANP, è andato svuotandosi di potere e significato. E’ necessario un fronte unificato nazionale.
La lezione fondamentale di tutti i movimenti di liberazione che combattono imperialismo, colonialismo, occupazione e apartheid è proprio la necessità di un fronte nazionale unificato. La resistenza palestinese non ne possiede uno oggi. La crisi si manifesta nel caos all'interno delle stesse istituzioni palestinesi e questo caos è un prodotto dell’epoca e degli accordi di Oslo.
Il fine della resistenza palestinese è quello di rappresentare un'alternativa valida alla linea e al percorso degli inutili negoziati, deve cioè avere un programma politico chiaro che si allei con le classi popolari (il 99 per cento del popolo palestinese), in particolare quelli che stanno lottando in condizioni di povertà e vivono nei campi profughi.
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