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Intervento di Ermanna (Collettivo Autorganizzato Universitario - Napoli)

Se vivi, vivi libero, si sente ripetere dai palestinesi a chi si ritrova ad ascoltare le loro storie di quotidiana resistenza, se per questo vai incontro alla morte – dicono – muori come un albero, in piedi, davanti ai tuoi oppressori.

Nell’osservare lo scenario attuale, con la continua espansione degli insediamenti coloniali, la  costruzione del muro, i raid, i bombardamenti, l’assedio, le demolizioni, gli arresti, è immediato pensare che non ci siano, al momento, particolari prospettive di cambiamento e che, anzi, ci si ritrovi in una situazione dove ogni tentativo minimo di rottura non riesce a sedimentarsi a causa della violenta e apparentemente inarrestabile macchina sionista e della frammentazione del fronte di resistenza palestinese, di cui risentono soprattutto le componenti di Sinistra.

Eppure, nonostante non ci siano slanci e sponde organizzative di sorta, i palestinesi continuano a resistere: ne sono un esempio lampante gli ultimi scioperi della fame nelle carceri israeliane1, la continua e ferma volontà di chi rifiuta di abbandonare le proprie terre, i propri ulivi, le proprie case, continuando a coltivare, a ripiantare gli alberi, a ricostruire ogni volta dalle macerie. Sono un ulteriore esempio di questa resistenza che non si arresta le centinaia di palestinesi che continuano a manifestare ogni venerdì contro l’Occupazione, che si organizzano spontaneamente in comitati popolari, che difendono i propri campi e i propri quartieri dai raid dell’esercito israeliano, affermando e urlando così la propria esistenza contro chi cerca costantemente e scientificamente di negargli non solo la terra, ma soprattutto un’identità e qualsiasi forma di dignità.

Se quest’ humus di quotidiana e spontanea resistenza persiste e ci insegna ancora tanto, nonostante le contraddizioni, la regressione all’interno della stessa società palestinese e lo sprofondamento in una spirale di brutalità in cui ogni colonialismo costringe il colonizzato, cosa ci resta da fare, da qui, per supportare le forze progressiste che sostengono il progetto originario di liberazione e emancipazione nazionale ormai abbandonato dalle leadership dell’ANP e di Hamas? Quali sono le ragioni delle attuali difficoltà dei movimenti di solidarietà con la Palestina e quali alcuni degli errori che si commettono e che dovremmo superare? E ancora, quali responsabilità hanno i nostri governi e più complessivamente le istituzioni europee – che rendono sempre più necessario un intervento di continuo smascheramento e contrasto –  nel mantenere una perfetta complicità con le politiche d’Israele, normalizzando sempre di più l’Occupazione e l’Apartheid?

Nel porci queste domande e abbozzare delle risposte non abbiamo sicuramente la pretesa di essere esaustivi, ma cercheremo di dare qualche spunto per un dibattito e un’azione politica che speriamo proceda e ci porti a dare prospettiva ad un convegno come questo.

Innanzitutto, in una fase storica come quella che stiamo vivendo, di crisi economica, politica ma anche sociale e culturale, che si declina nel complessivo attacco al mondo del lavoro, alla continua precarizzazione e in politiche di esclusione e repressione sempre più marcate, ci tocca riscontrare ancora, nonostante i numerosi focolai di lotta sul nostro territorio, la mancanza di prospettiva, di coesione e di organizzazione, la mancanza di analisi reale e di parole d’ordine chiare, leggibili, incisive per i movimenti, i comitati, per tutte le realtà che cercano quotidianamente di cambiare l’esistente. Questa mancanza di orientamento si riflette, a nostro avviso, quasi automaticamente anche nella lotta internazionalista. Se non si riescono ad identificare ed attaccare le contraddizioni principali nei nostri territori, nelle nostre università, nei posti di lavoro, se il filo rosso che lega le nostre lotte a quelle dei palestinesi - e di tutti i popoli oppressi - resta invisibile, allora risulta impossibile capire perché, in un momento complesso come questo, si dovrebbe costruire un fronte di solidarietà per la Palestina, e si lascia inevitabilmente spazio ad altre analisi, ad altri metodi, a prospettive inevitabilmente di stampo più umanitario che non di liberazione politica e sociale.

Queste considerazioni non devono  scoraggiarci, anzi, devono servire a ricordarci che la lotta degli sfruttati e oppressi qui in Italia e in altri paesi d’Europa, avanza e trae forza e ispirazione anche dalle lotte degli sfruttati e oppressi nel resto mondo, dall’Egitto alla Tunisia, dal Bahrein alla Turchia fino all’America Latina e che solo in una prospettiva internazionalista, che colleghi questi fronti e faccia sì che si supportino reciprocamente, si può vincere la partita globale contro lo sfruttamento, e costruire quella semplicità che è difficile a farsi2.
 

La dicotomia tra violenza/nonviolenza

Ma ritorniamo ai temi posti dal documento di lancio di questo convegno3: primo fra tutti ci sembra importante quello dell’annosa divisione tra violenza e non violenza, tra un tipo di resistenza armata, che viene dipinta in certi casi quasi come illegittima ed una non violenta, accettata, finanziata e propagandata dalle ONG e dalle associazioni che ritengono che solo attraverso questo strumento i palestinesi possano raggiungere i loro obiettivi.

I discorsi occidentali si rivolgono sempre più alla resistenza pacifica, disarmata, non violenta, come unica forma di lotta possibile, portando inevitabilmente, con questa modalità discorsiva, a una dicotomia tra violenza-non violenza, a dare per scontata un’irrisolvibile inconciliabilità di fondo tra queste due strade. Tale separazione netta non fa parte della prassi di lotta e riflessione politica palestinese se non a partire dagli ultimi anni e solo nei comitati popolari finanziati direttamente dal governo di Fayyad4 che, per attirare l’attenzione dei media sulle loro sacrosante lotte, hanno, probabilmente ingenuamente, adottato in certi casi il termine. L'artificialità di questa separazione è lampante anche solo a partire da una banale analisi linguistica: basta pensare, infatti, che in arabo l'espressione “non violento” neppure esiste e viene tradizionalmente utilizzata invece l’espressione “muqawama shabiya” che possiamo tradurre con “resistenza popolare”, di massa, composta da scioperi, cortei, boicottaggi, azioni dirette e “muqawama musallaha” che indica invece la resistenza armata, formata da gruppi addestrati per la guerriglia e le azioni militari.

I palestinesi, lo sappiamo bene, hanno ormai una centenaria storia di resistenza declinata in modalità differenti e in nessun caso le forme di lotta sono state contrapposte l’una all’altra se non per scelta tattica e ogni tentativo di definire, da parte nostra, un modo di resistenza escludendone categoricamente un altro non può che essere, a nostro avviso, un’ingerenza inutile e dannosa alla causa.

Del resto la violenza, come ci ricorda Fanon5, è ed è sempre stato il mezzo per riconquistare sé stessi, la propria umanità e libertà da parte di chi, come il colonizzato, è continuamente negato, sfruttato, oppresso. Compito dell’organizzazione politica è incanalare questa violenza, renderla motore della storia, trasformarla in legittima difesa dei popoli oppressi che affrontano quotidianamente la violenza della dominazione, del disprezzo, della disumanizzazione.

Pensiamo, parafrasando un’intervista di Juliano Mer Khamis6, che non è cantando canzoni che i carri armati si scioglieranno, che la resistenza contro l’occupazione è ancora prima di tutto armata e di popolo, ovvero necessariamente supportata da una cultura, da un’identità, da un immaginario che impedisca la degenerazione nella vendetta, nell’odio fine a se stesso.
 

Quale solidarietà per la Palestina?

Resta da capire quali strategie possono adottare i movimenti di solidarietà con la lotta palestinese. Oggi più che mai c’è la necessità di costruire un contenitore, una rete di sostegno alla sinistra palestinese, riprendendo contatti, campagne, azioni, ma soprattutto elaborando una lettura politica complessiva della situazione, base fondamentale per costruire un agire politico condiviso e quindi più forte. Tutto questo ci sembra necessario per uscire dall’isolamento, per collaborare - a partire da una prospettiva di lavoro precisa e definita - con tutte le altre realtà, movimenti, associazioni che si occupano – anche con visioni differenti – di solidarietà internazionalista con la lotta palestinese.

Uno strumento assolutamente utile che da anni ormai sta già portando numerose piccole e grandi vittorie è il BDS, la campagna per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro Israele. Il BDS – nonostante abbia a nostro avviso il limite di avere come costante riferimento la legalità internazionale – rimane tatticamente importante e utile nel mettere a nudo l’opportunismo, il razzismo e le complicità dei nostri governi e istituzioni sovranazionali con le politiche di segregazione e sterminio perpetuate da Israele. Lavorare per il boicottaggio è fondamentale per riportare al centro il diritto all’autodeterminazione, per umanizzare il soggetto palestinese a cui è stata tolta ogni voce dall’ideologia e propaganda sionista, per spingere la sinistra, anche moderata, a riconoscere le istanze  dei Palestinesi allo stesso modo in cui, in passato, sono state riconosciute le vittime del Sud Africa dell’Apartheid.

Oggi più che mai, infatti, il miglior contributo che possiamo dare alla lotta palestinese è attraverso la mobilitazione che porti a recidere i legami di ferro tra l’imperialismo occidentale e lo Stato d’Israele.

Attivarsi in questo senso è importante, bisogna però evitare di cadere nel rischio di portare la questione semplicemente sul piano dei diritti umani, senza assumere la concezione che le norme espresse dal diritto internazionale siano in qualche modo la chiave per la liberazione del popolo palestinese7, senza, per dirla con Brecht, mischiare l’acqua con il vino8, ma bevendo alternativamente da entrambi i bicchieri, riuscendo, in conclusione, ad utilizzare le contraddizioni presenti all’interno del diritto borghese per portare avanti una lotta non borghese.

È questo, nel nostro piccolo, che abbiamo cercato di fare appoggiando e costruendo la campagna per la Freedom Flotilla 3 che ha visto il veliero Estelle ormeggiare ad ottobre nel porto di Napoli prima di tentare di rompere l’assedio di Gaza. Abbiamo utilizzato canali di ogni genere (il patrocinio comunale, il battage sui giornali locali, le conferenze stampa, ma soprattutto il passaparola, gli attacchinaggi, i volantinaggi, le serate musicali, le iniziative all’università e nelle scuole) per diffondere e costruire una rete di comunicazione sulle varie iniziative della campagna. Il risultato in termini di partecipazione è stato sorprendente: il 6 ottobre, in occasione della partenza del veliero, a Napoli c’è stato un corteo di più di 2000 persone9, alla cui testa sventolavano le bandiere rosse e gli striscioni per Sa’adat, che urlavano e chiedevano a gran forza la liberazione dei prigionieri politici, la fine dell’occupazione, dell’apartheid e delle complicità dei nostri governi alle politiche di avallo dell’oppressione e dello sfruttamento in Medio Oriente.

Non sono mancati i soliti sionisti, come Fiamma Nirenstein che si sono affrettati a sputare veleno, mentre l’ambasciatore israeliano in Italia ha scritto fiumi di parole per denunciare la sua indignazione verso il sostegno “istituzionale” alla missione. Ma, per una volta ci sembra che i loro colpi siano andati a vuoto grazie a tutti quelli che ci hanno dato una mano per costruire un progetto in maniera orizzontale, a partire dalla condivisione degli obiettivi di fondo, ma declinandolo in tante maniere e forme differenti. Ci sembra che questa piccola esperienza possa servire a identificare un metodo possibile per portare avanti come comunisti il sostegno alla causa palestinese: uscire dal settarismo nel quale a volte ci auto-releghiamo e utilizzare tutti gli strumenti a nostra disposizione per allargare la base di chi ci sostiene e diffondere le nostre ragioni, che altrimenti rimangono marginali e facilmente attaccabili.
 

Qualche nota sulla situazione economica in Palestina e gli interessi di Israele

Come abbiamo già accennato in precedenza ci sembra fondamentale, per supportare la resistenza del popolo palestinese, fare pressione anche dal nostro paese e svelare quale sia la reale matrice dell’interessamento e della vicinanza dell’Italia alle istanze del governo israeliano. In primo luogo è fondamentale sottolineare che attualmente l’Italia è uno dei primi partner commerciale di Israele10, e che quindi il sostegno a questo paese nasce da ragioni che sono tutt’altro che filosofiche e disinteressate.

A questo tassello bisogna aggiungerne un altro: l’Unione Europea oggi è il primo finanziatore dell’Autorità Palestinese11 con il solo scopo, come affermato dalla stessa ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro) di “rendere sostenibile la realtà attuale”: si dà per scontato che la situazione vigente sia, insomma, l’unica possibile e si getta acqua sul fuoco. A contribuire a questo assordante silenzio attorno alla brutalità israeliana, nonostante i numerosi appelli di suoi funzionari contro le operazioni militari dell’IDF, ci pensano infine le Nazioni Unite, le cui agenzie (come l’UNRWA) sono finanziate e strutturate per mantenere i profughi palestinesi in un limbo di assistenzialismo perenne, poiché la loro raison d’être è proprio quella di perpetrare e quindi normalizzare lo stato dei rifugiati, senza poter avanzare soluzioni per risolverlo implementando il diritto al ritorno sancito dalle stesse risoluzioni dell’ONU.

Invitiamo inoltre a riflettere chi ancora crede che l’aggressione israeliana parta esclusivamente da ragioni ideologiche sulle ragioni economiche che spingono e hanno sempre spinto i fautori dell’Occupazione e sulla sostanziale affinità storica e strutturale tra sionismo e capitalismo. L’Occupazione e l’Apartheid sono e sono sempre stati funzionali allo sviluppo dell'economia di Israele, al controllo dei flussi di manodopera attraverso il rilascio dei permessi di lavoro12ormai limitato ufficialmente a sempre meno palestinesi dopo gli accordi di Oslo perché, strategicamente, il governo di Tel Aviv scelse di aprire il paese ai flussi di manodopera migrante africana e asiatica per implementare, invece, la pulizia etnica palestinese in Cisgiordania13.

È inoltre impossibile non notare, specialmente in questi tempi di crisi, la dipendenza economica dell’ANP, subordinazione stabilita di fatto e di diritto dal Protocollo di Parigi14, che rende impossibile l’autonomia dei Territori e che ha messo in serie difficoltà l’amministrazione dell’Autorità Palestinese anche a causa del blocco delle assunzioni che va avanti ormai da due anni e il ritardo nei pagamenti degli stipendi.

Ma negli ultimi anni, in effetti, dopo la svolta neoliberista degli anni ’80, anche in Israele la situazione sta cambiando svelando molte contraddizioni nella gestione economica del paese, portando lo Stato sionista al tasso di povertà più elevato tra i 34 paesi membri dell’OECD (l’organizzazione internazionale che riunisce i paesi a libero mercato), con il 23,6% della popolazione che vive sotto la soglia di povertà15. Una parte di questa quota è composta – ironia della sorte per uno Stato che ha fatto della strumentalizzazione dell’Olocausto un suo cavallo di battaglia per proteggere il sionismo – dai sopravvissuti al nazismo (il 25% dei sopravvissuti all’Olocausto16), che hanno serie difficoltà ad arrivare a fine mese, procurarsi cibo, medicine, riscaldamenti, e si sono ritrovati abbandonati proprio dall’entità politica che per antonomasia non doveva più consentire ingiustizie sulla pelle del popolo ebraico. Ma si sa, il mercato e gli interessi del capitale non guardano in faccia a nessuno. Se negli anni della sua fondazione e per alcuni decenni successivi lo Stato di Israele poteva fondare la sua forza – anche grazie agli immensi aiuti americani – sulla suggestione e sull’idea di “una nazione” che aveva un’altissima distribuzione della ricchezza interna, basando il proprio “welfare” sul “warfare” quindi sulle guerre, sull’occupazione, sull’espropriazione di terre e sullo sfruttamento dei colonizzati, oggi quel sistema non sembra più sostenibile (a parte, non a caso, nelle colonie, dove i livelli dei servizi rimangono elevati).

Ai lavoratori israeliani, se riusciranno a mettersi in gioco, spetterà dunque la scelta: lotteranno per un’alternativa di welfare senza warfare aprendo finalmente gli occhi sull’occupazione e colonizzazione dei territori palestinesi, o rimarranno intrappolati nell’etnonazionalismo, nelle politiche di esclusione e aggressione a scapito dei palestinesi17?

Guardando a questi scenari e analizzando le ragioni materiali del sionismo – e di conseguenza anche della resistenza contro i soprusi perpetrati in suo nome – risulta sempre più evidente una vicinanza reale tra i nostri interessi e quelli dei popoli in lotta sull’altra sponda del Mediterraneo, in Palestina, in Turchia18. È in questo senso che, a nostro avviso, si deve continuare a combattere il sionismo – letto nella sua funzionalità agli interessi dell’imperialismo –, abbattendo  ogni muro, frontiera, checkpoint che sembra dividere il fronte comune degli oppressi e degli sfruttati.

Le rivoluzioni, i processi di liberazione, ce lo ricordano anche gli avvenimenti in Egitto, Tunisia, Bahrein, non sono di certo eventi, ma processi lunghi da sviluppare, sviscerare e costruire. Nel momento in cui si perde il timore per un cambiamento radicale ed esplode invece il coraggio e la passione di chi cerca di cogliere l’occasione, ogni prospettiva risulta possibile. A noi non resta che continuare a metterci in gioco, insieme, per bandire finalmente dalla terra qualsiasi razzismo, sfruttamento e oppressione e lavorare finalmente non per i profitti di pochi ma per l’arricchimento – in termini di cultura, dignità e consapevolezza – dell’intera umanità.
 

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Note:

1. L’ultimo incredibile esempio è stato quello di Samer Issawi, che dopo quasi 8 mesi di sciopero della fame è riuscito ad ottenere un accordo per la sua liberazione, senza rinunciare al ritorno a Gerusalemme.  . Il suo nome e la sua storia quindi, si affiancano a quelli già ormai noti come Hana Shalabi, Khader Adnan, Mahmoud Sarsak e molti altri, che hanno riportato al centro del dibattito politico la questione dei prigionieri e delle loro rivendicazioni politiche che consistono non solo nella lotta contro la detenzione amministrativa, per la loro liberazione e per migliorare le loro condizioni carcerarie, ma anche nel richiamare all’unità il popolo palestinese, laddove gli inutili tentativi delle leadership di Hamas e Fatah non sembrano portare a nessun risultato.

2. Da “Lode del comunismo” di Brecht: “E’ ragionevole, chiunque lo capisce. E’ facile/ Non sei uno sfruttatore, lo puoi intendere./ Va bene per te, informatene./ Gli idioti lo chiamano idiota e, i sudici, sudicio./ E’ contro il sudiciume e contro l’idiozia./ Gli sfruttatori lo chiamano delitto./ Ma noi sappiamo:/ è la fine dei delitti./ Non è follia ma invece/ fine della follia./ Non è il caos ma/ L’ordine, invece. / E’ la semplicità/ che è difficile a farsi.”  traduzione di Franco Fortini e Ruth Leiser.

3. http://www.palestinarossa.it/?q=it/content/story/dalla-solidarieta-alla-lotta-internazionalista

4. In un editoriale su Electronic Intifada, Linah Alsaafin, dopo un’intervista a uno dei leader dei comitati popolari finanziati dall’ANP, dichiara che i finanziamenti ricevuti ammonterebbero a 125.000 dollari l’anno, a cui vanno aggiunti quelli di varie ONG, tra cui la principale è la spagnola NOVA. Così facendo, l’ANP può dichiarare di supportare la “resistenza non violenta” palestinese mentre i suoi apparati di polizia collaborano quotidianamente con Israele per fermare ogni tipo di conflittualità con l’Occupazione, in nome dei tanto decantati negoziati e rapporti diplomatici in corso. Qui il link all’articolo

5. Tema ripreso più e più volte nei testi di Fanon, ad esempio nel capitolo “Della violenza” del suo testo forse più conosciuto, “I dannati della Terra” considerato un manifesto della lotta anticoloniale. Un recente tentativo di accostare Fanon alla questione palestinese è stato pubblicato e scritto da Nasser Rego su Jadalyya, nel suo articolo “Reading Fanon in Palestine/Israel” che mostra come il sistema legislativo israeliano alimenta e costruisce schemi razziali sui palestinesi, specialmente analizzando la situazione dei beduini che vivono in Israele.

6. “Non credo che cantando canzoni i carri armati si sciolgano. Questo discorso va bene per chi viene qui semplicemente per sentirsi utile e partecipare. Sono sciocchezze. Credo che diversi mezzi di resistenza possano convivere. La resistenza contro l’occupazione è prima di tutto armata, violenta, ma poi deve essere supportata dalla cultura, da un movimento di popolo, ed eventualmente dall’arte. Un’occupazione deve e può essere combattuta con ogni mezzo.”. Qui la sua storia e una sua intervista.

7. A volte si parla del BDS come se un movimento di solidarietà basato su sanzioni economiche che rientrano nei meccanismi della legislazione internazionale e dei diritti umani possa liberare popoli ovunque nel mondo.  Anche in Sudafrica, l’apartheid non cadde per il boicottaggio mondiale ma grazie alle azioni di lotta dell’ANC. Sicuramente il movimento anti-apartheid diede respiro, spazio e supporto alle lotte di liberazione sudafricane ma non fu, in ultima istanza, la ragione per la dissoluzione dell’apartheid. Le nazioni oppresse non sono liberate dagli “umanitari” delle nazioni imperialiste, ed è quindi soprattutto nel supporto alla lotta generale anche qui nei nostri paesi contro il capitalismo e ogni forma di oppressione che si crea un legame concreto con le lotte al di là del Mediterraneo.

8. Da “Me-ti, Libro delle svolte”: “Dei compromessi. Ovvero del bere acqua e vino da due bicchieri. Mi-en-leh insegnava a proposito dei compromessi: i compromessi sono spesso necessari. Molti intendono per compromesso il versar acqua nel proprio vino. Pensano che il vino non tagliato sia indigesto. Oppure che il vino a disposizione non basti a soddisfare la sete. Io sui compromessi ho un’opinione diversa. Bevo l’acqua e il vino da due bicchieri. Poiché altrimenti è troppo difficile ritirar fuori il vino dall’acqua”

9. Qui il comunicato scritto per l’occasione dai compagni del FPLP, e qui un nostro piccolo resoconto scritto sull’onda emotiva di quei giorni

10. http://www.bdsitalia.org/index.php/la-campagna-bds/ultime-notizie-bds/202-litalia-ponte-verso-leuropa-per-israele?highlight=YTo0OntpOjA7czo4OiJyYXBwb3J0aSI7aToxO3M6NjoiaXRhbGlhIjtpOjI7czo3OiJpc3JhZWxlIjtpOjM7czoxNDoiaXRhbGlhIGlzcmFlbGUiO30=

11. “The European Union - European Commission and EU Member States - is the biggest multilateral donor of financial assistance to the Palestinians.”

12. “I meccanismi di funzionamento dell'apartheid israeliano risultano fortemente funzionali allo sviluppo capitalistico dell'entità sionista. Il controllo dei flussi di manodopera è, a questo riguardo, la chiave di volta del sistema di sfruttamento che viene perpetuato quotidianamente contro i palestinesi.“

13. http://www.migrationinformation.org/Feature/display.cfm?ID=321

14. Non a caso le proteste portate avanti nell’autunno del 2012 ponevano al centro degli attuali problemi nella gestione della crisi economica palestinese il Protocollo di Parigi, che impedisce di implementare politiche economiche incisive, sottomettendo l’economia palestinese a quella israeliana.

15. http://nena-news.globalist.it/Detail_News_Display?ID=74844 

16. "The economic crisis has seriously affected Holocaust survivors as well, for whom every day is a struggle to begin with," said Afari. "Many of them rely on the aid of organizations, which are on the verge of collapse.” E ancora su ynet: http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-4062637,00.html “Over 25% of Holocaust survivors live in poverty. Report published ahead of Holocaust Remembrance Day indicates some 208,000 victims of Nazi atrocities remain in Israel; poll reveals 40% of survivors feel lonely, while half say they are in need of financial aid“

17. "Until we dare to ask for welfare without warfare we will remain caught up in ethnonationalism," Cohen argues, and ethnonationalism in the midst of neoliberalism ensures both continued conflict and continued concentration of wealth away from the majority of the people.”

18. A proposito della Turchia, come Clash City Workers, collettivo di inchiesta e connessione delle lotte nel mondo del lavoro, abbiamo scritto quest’opuscolo di analisi che guarda agli ultimi 10 anni di riforme ultraliberiste portate avanti da Erdogan e che ci restituisce, nel suo piccolo, un quadro della situazione attuale.
 


 

Ermanna
CAU Napoli

 

Fonte: http://www.caunapoli.org/index.php?option=com_content&view=article&id=1332:convegno-solidarieta-lotta-internazionalista-milano&catid=77:cosa-pensiamo&Itemid=169
 


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Per sviluppare un lavoro di classe nel sostegno alla lotta di liberazione della Palestina e degli altri popoli oppressi e aggrediti dall'imperialismo, oltre alle sterili e dannose concezioni del pacifismo e dell'equidistanza tra aggressori e aggrediti che hanno in gran parte contribuito ad affossare il movimento contro la guerra nel nostro paese negli ultimi anni, si è deciso di fondare l'organismo nazionale Fronte Palestina.

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