La Siria, negli ultimi anni, ha rappresentato il centro delle contraddizioni mondiali. Pensiamo solo allo scontro sviluppatosi in proposito da una parte tra l'interventismo del blocco della Nato e la posizione assunta dalla Cina e sopratutto dalla Russia. Il fatto che la guerra, come doveva essere nei piani imperialisti del campo atlantico, non si sia sviluppata con il loro intervento diretto come da copione libico, iracheno, afghano... ha fatto sì che da questo centro le contraddizioni rimbalzassero a livello globale, aprendosi il fronte ucraino di contrapposizione diretta alla Russia e, per quanto riguarda il Medio Oriente e il Nord Africa, la tendenza alla guerra si regionalizzasse. Si aprono così nuove sfide nella lotta contro l'imperialismo, alle quali non possiamo sottrarci, come comunisti e forze di classe, visto anche che l'incendio globale lambisce l'Italia e l'imperialismo italiano ne è uno dei protagonisti.
16 Agosto 2014
"Attaccheremo sette paesi in cinque anni. Inizieremo con l'Iraq. Poi Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan, ci riprenderemo l'Iran in cinque anni”. Così nel novembre 2001, il generale statunitense ed esponente del Partito Democratico, Wesley Clark riferì dei piani di guerra del proprio paese successivi all'invasione dell'Afghanistan, proprio mentre gli Usa ne stavano conquistando la capitale Kabul. Le tappe della guerra imperialista portata avanti dagli Usa a livello globale, con la partecipazione delle altre potenze del campo atlantico, Italia in primis, erano già allora, 13 anni fa, già delineate e grossomodo possiamo dire che tale agenda è stata rispettata o almeno si è puntato a rispettarla, modulandola allo sviluppo delle condizioni concrete e a quanto esse avevano da offrire per le aggressioni da condurre rispetto ai singoli paesi.
Sotto le vesti ideologiche di una nuova crociata contro “il terrorismo e gli stati canaglia” e delle missioni “di pace e di intervento umanitario”, gli Usa, a partire dall'alba di questo secolo - chiuso peraltro il precedente con la guerra alla Jugoslavia - hanno capeggiato e condotto, direttamente e indirettamente, la campagna di aggressione più vasta in senso neocoloniale dalla caduta del colonialismo storico. Un vero e proprio processo di ripartizione imperialista di aree del pianeta, strategiche dal punto di vista economico, politico e militare, nella fase in cui la crisi del sistema capitalista internazionale tende ad aggravarsi ed emergono contemporaneamente nuove potenze che contendono i mercati mondiali alle classi dominanti statunitensi ed europee, mettendone così in discussione il predominio. Per mantenere e rafforzare quest'ultimo, la borghesia imperialista statunitense conduce una guerra di posizione globale a sua volta composta da tante specifiche guerre di movimento contro singoli popoli e paesi, strategicamente orientata ad accumulare forze per la guerra di movimento finale, quella contro le potenze imperialiste rivali, com’è destinato a rendere oggettivamente necessario il procedere della crisi, come indica la storia dell'imperialismo con le due guerre mondiali del secolo scorso e come affermato nei documenti di analisi e di prospettiva elaborati dagli strateghi di Washington. Si veda ad esempio quanto elaborato dal Progetto per un Nuovo Secolo Americano, il centro studi attivo dal 1997 al 2006, che indicava chiaramente nella Cina il vero nemico di lungo termine degli Stati Uniti.
Questi popoli e paesi da aggredire rappresentano nazioni sovrane o comunque non sottomesse agli interessi imperialistici yankee ed in esse integrabili data la loro condizione attuale, e/o presentano una stato di destabilizzazione, per contraddizioni interne opportunamente fomentate dagli aggressori, le quali consentono dapprima l'ingerenza e poi preparano il terreno per l'intervento vero e proprio. Se l'obbiettivo è avanzare nella conquista, i mezzi possono infatti essere declinati sul piano militare, ma anche su quello principalmente politico o militare indiretto, cioè sostenendo un cambio di regime dall'interno e non imponendolo con un intervento diretto dall'esterno, oppure combinando i due fattori.
Dato assolutamente non da trascurare è quello per cui la guerra assume portato di sintesi strategica non solo rispetto al nemico, in senso antagonista, ma anche al proprio campo, da ricompattare preventivamente dietro il comando e integrandone gli interessi che in esso sono presenti nei passi strategici compiuti o sfruttandone gli interessi specifici, dando loro spazio e appoggio, per i propri interessi complessivi. Così gli Usa sono sostanzialmente riusciti, almeno finora, a rinsaldare il campo che, militarmente, è inquadrato nella Nato, costituendo un fronte più o meno compatto con le potenze imperialiste europee, avallandone anche i specifici appetiti, come successo con la Francia rispetto all'Africa, laddove essi possono collocarsi positivamente nelle strategie di ampio respiro (ad esempio per l'Africa bisogna contenere principalmente i capitali e l'influenza cinese).
Discorso similare può essere sommariamente svolto per Israele, quale avamposto fondamentale dell'imperialismo Usa ed europeo in Medio Oriente, e per borghesie locali, il cui asservimento va riprodotto e di cui vanno contenute le spinte all'autonomizzazione, come, sempre nell'area mediorientale, tende ad accadere rispetto ad Arabia Saudita, Qatar e Turchia. E, infine, sul terreno concreto della guerra guerreggiata o della destabilizzazione politica e militare, si punta ad arruolare le forze che permettono di ottenere gli obbiettivi prescelti, senza badare alle contraddizioni che il loro rafforzamento potrà generare, anzi ritenendo che un domani queste stesse contraddizioni potranno essere sfruttate per giustificare nuovo interventismo.
Si pensi – è l'esempio più lampante – agli islamisti ferocemente combattuti in Afghanistan, nel confinante Pakistan e in Iraq – i diabolici Talebani e Al Qaeda – che divengono (o meglio ridivengono se risaliamo ancora più indietro. ai tempi della guerra contro l'Urss in Afghanistan) “freedom fighters” in Libia e Siria quando sono funzionali a soggiogare questi paesi. Fin qui la visione strategica della borghesia imperialista Usa, delle borghesie imperialiste ad essa alleate e, in parte, di quelle complici e subalterne: una prospettiva che potremmo definire teorica se la rapportiamo alle contraddizioni reali che si è trovata difronte nella sua applicazione pratica, pur se, come dicevamo, le tappe della guerra non sono affatto venute meno e sono state all'incirca quelle indicate da Clark nel 2001, anche se nessuna di queste guerra nei singoli paesi si è mai effettivamente conclusa e se alcune aggressioni dirette non sono riusciti a condurle. Partiamo dall'Iraq e dall'Afghanistan, dove, abbattuti i cosiddetti “stati canaglia” e occupato l'intero territorio, gli invasori si sono trovati sulla loro strada il macigno della Resistenza popolare: una forza capace di logorarli e che pur non riuscendo a determinare la loro concreta cacciata, come avvenuto nel 1975 in Vietnam, ne hanno sicuramente decretato il fallimento sostanziale dei piani di dominio. Anche talune forze che integrate all'interno di quest'ultimi, finiscono alla lunga e complessivamente per perseguire interessi contrari, com'è accaduto con i partiti sciiti in Iraq, espressione dell'influenza iraniana, che hanno premuto perché nessun contingente statunitense rimanesse nel paese dopo la fine ufficiale delle operazioni militari.
La successiva aggressione del luglio 2006 condotta da Israele contro il Libano, doveva essere il primo grande passaggio di una guerra di posizione nell'area mediorientale, volta a disarticolare la forza regionale dell'Iran: in questo caso l'obbiettivo era la liquidazione o comunque il sostanziale indebolimento della Resistenza di Hezbollah, strettamente legato a Teheran. L'artiglieria israeliana martellò sanguinosamente soprattutto le zone meridionali del paese e Beirut sud, dove Hezbollah ha le sue basi di appoggio fra le masse sciite, ma le truppe di terra non riuscirono ad avanzare difronte al fuoco dei guerriglieri libanesi. Israele, per la seconda volta dopo la ritirata del 2000, usciva sconfitta dallo scontro con la Resistenza Libanese e la cosiddetta comunità internazionale, cioè le grandi potenze del Consiglio di Sicurezza e gli Stati Uniti in primis, decidevano di normalizzare la frontiera israelo-libanese inviando contingenti delle Nazioni Unite, tra cui truppe italiane.
L'agenda di guerra indicata da Clark ci impone di rivolgere uno sguardo all'Africa araba del Sudan e della Somalia: tappe che vengono puntualmente rispettate nelle strategie di guerra degli imperialisti yankee e europei, pur se entrambi i fronti vengono gestiti con conflitti su procura. Per quanto riguarda il Sudan, nel mirino vi sono le zone petrolifere del sud del paese, ove la maggioranza della popolazione, a differenza del nord arabo ed islamico, è nera e di religione cristiana o animista: come in molti altri casi, queste condizioni permettono un interventismo imperialista indiretto, balcanizzando il paese e alimentando il separatismo delle zone meridionali. Nel 2011, dopo anni di scontri con due milioni e mezzo di morti, nasceva lo stato del Sud Sudan, il quale, dal dicembre 2013, sprofondava in un nuova guerra civile tra le due fazioni di borghesia capeggiate rispettivamente del presidente Kiir e quella del vicepresidente Machar, il primo di stretta osservanza filoamericana, il secondo fautore della continuità degli investimenti cinesi in campo petrolifero, prevalenti quando l'area era sotto controllo di Khartoum e ora messi in dubbio dal nuovo corso di cosiddetta indipendenza. Come per il Sudan, anche per la Somalia si è trattato di una guerra per procura e, in ambedue i paesi, del prolungarsi di un conflitto che, affondando le radici nel secolo scorso, mutava in parte natura e collocazione nella nuova fase di guerra del secolo attuale.
Dal 2006 in poi, le principali potenze atlantiche, Stati Uniti e Francia in testa, hanno iniziato a sostenere dapprima politicamente e con un sostegno militare indiretto, poi anche con periodiche azioni di attacco diretto, il regime dei signori della guerra contro le milizie delle Corti Islamiche e poi degli Shabab. Ciò ha significato, per il paese, subire l'invasione degli addentellati atlantici nella regione: dapprima l'Etiopia, poi forze dell'Unione Africana e oggi soprattutto quelle del Kenya, tutte impantanatesi nelle sabbie mobili della Resistenza quanto i loro padroni in Afghanistan e Iraq. Dall'estrema punta dell'Africa Orientale, la tendenza alla guerra si è spostata alla parte settentrionale e occidentale, ovvero nell'area del continente africano più variamente ricca di risorse energetiche, dal petrolio all'uranio. Nel giro di pochi anni abbiamo assistito allo schieramento di truppe francesi e poi statunitensi in Niger a partire dal 2010, all'aggressione alla Libia e al colpo di stato in Costa d'Avorio nel 2011, all'invasione del nord del Mali nel 2013, all'intervento e all'ulteriore balcanizzazione della Nigeria nel 2014. L'abbattimento del regime “africanista” di Gheddafi doveva rappresentare il vero affondo strategico dell'imperialismo delle potenze Nato, poiché, oltre a mettere le mani direttamente sul petrolio libico, si poneva così fine ai progetti di sviluppo autocentrato del continente nero che la borghesia libica a capo della Jamahiria perseguiva, con investimenti economici in diversi settori e con politiche indipendenti, anche se non frontalmente contrapposte, agli interessi statunitensi ed europei.
Quel che però gli imperialisti ottennero, fu l'apertura del vaso di pandora dei potentati tribali e degli islamisti, gli stessi che essi avevano ricoperto di armi per rovesciare Gheddafi. La recente chiusura delle ambasciate degli Usa e della Francia in Libia, con relativa evacuazione di personale, dimostra più di ogni altro evento le contraddizioni e il sostanziale fallimento delle politiche messe in atto da questi aggressori. Il modello libico doveva essere pedissequamente applicato anche alla Siria di Assad.
L'ondata delle rivolte arabe, se opportunamente deviata in moto reazionario guidato dagli imperialisti grazie ai propri agenti locali, si sarebbe rivelata, come nel paese nordafricano, l'occasione storica per farla finita anche con l'ultimo paese arabo indipendente e sovrano, ancora formalmente in guerra con Israele per l'occupazione delle alture del Golan, nonché retroterra della Resistenza Libanese, sostenitore della Resistenza Palestinese e soprattutto, sul piano ampio del Medio Oriente e delle contraddizioni globali, unico alleato dell'Iran - anche per il transito del gas e del petrolio persiano fino al Mediterraneo - e della Russia – che sulle coste siriane, a Tartus, può contare su una strategica base militare sulle acque del Mediterraneo.
L'aggressione alla Siria, ancora più di quelle che abbiamo visto, rappresentava soprattutto un attacco di disarticolazione di linee strategiche contrapposte a quelle americane-europee e sioniste, in particolare quella dell'asse della mezzaluna sciita, che ha il suo centro e il punto di partenza da Teheran e arriva fino a Beirut Sud, passando sicuramente per Damasco e coinvolgendo per molti versi anche Baghdad. Asse che non colpisce solo i piani di dominio dell'imperialismo delle potenze atlantiche e del loro avamposto Israele, ma direttamente quelli delle classi dominanti sunnite, Arabia Saudita, Qatar e Turchia in particolare, che vedono, per quanto riguarda la prima, in pericolo il proprio predominio economico e politico sui paesi arabi e, per quanto riguarda i secondi, frustrate le proprie necessità di espansione capitalistica.
L'estensione e le implicazioni di questo asse erano state il fattore principale di rallentamento, negli anni, dell'opzione militare contro l'Iran, sulla scorta della campagna sullo sviluppo della bomba atomica da parte della Repubblica Islamica fino al fallimento delle sanzioni economiche di Usa e Ue, il che aveva evidenziato come i legami dell'Iran andavano ben oltre il mondo arabo e riguardavano le nuove potenze in ascesa mondiale, come Cina, Russia, India e Brasile, che semplicemente si rifiutarono di applicare le limitazioni commerciali imposte da Washington e Bruxelles. L'attacco all'Iran fu messo nel cassetto, tra l'opposizione di coloro che formano la “prima linea” del fronte filoimperialista, ovvero Israele e le petromonarchie sunnite, poiché strategicamente poco praticabile in senso diretto, ma sicuramente perseguibile nel tempo secondo una schema di guerra di posizione a livello regionale, che vedesse nell'abbattimento del regime di Assad il passaggio più a portata di mano e che dava risultati immediati migliori. Anche perché vi erano tutte le condizioni per condurre una guerra per procura, armando la cosiddetta “rivoluzione” contro Assad come si era fatto contro Gheddafi, mutando un moto popolare probabilmente anche legittimo, per alcune sue rivendicazioni di democratizzazione e di maggiore equità nel paese, in mobilitazione reazionaria e soprattutto connotandolo come “guerra santa” contro il regime del “despota sciita”, ponendo le basi per una balcanizzazione non solo in Siria, ma in tutto il Medio Oriente, che fosse funzionale, in ultima analisi, alla guerra contro l'Iran. Gli stessi analisti internazionali del campo imperialista a guida Usa, compresi quelli della classe dominante italiana, quando non si trovarono intenti alla più bieca propaganda di guerra al servizio dei loro padroni (la mostrificazione del nemico, in questo caso Assad, come prima fu per Gheddafi, Saddam, Milosevic...) definirono la crisi siriana come “guerra civile mondiale” per le sue implicazioni non solo regionali, ma, come dicevamo soprattutto rispetto alla Russia, anche globali.
La campagna mediatica a favore dei ribelli-mercenari, i vertici internazionali dei paesi promotori della guerra per procura, autonominatisi “amici della Siria”, che videro, tra gli altri, la partecipazione italiana e si svolsero anche a Roma, la costituzione di strutture di rappresentanza estera dei ribelli e di un governo ombra sotto le insegna del Consiglio Nazionale Siriano, l'attivismo degli Usa all'Onu per aumentare l'isolamento della Siria, le sanzioni di Washington e Bruxelles, i periodi bombardamenti da parte della Turchia e di Israele...tutto ciò, forse ancora di più rispetto alla Libia, sembrava presagire che ci sarebbe stato, alla fine, l'intervento imperialista per deporre Assad.
L'apice, quando i bombardamenti statunitensi sembravano questione di giorni, si toccò dopo il 21 agosto 2013, con il presunto attacco chimico dell'esercito siriano contro un sobborgo di Damasco. Il classico discorso del presidente americano sul “dovere morale” di intervenire, la distribuzione di maschere antigas in Israele e le navi da guerra statunitensi, francesi e persino italiane che si avvicinano alle coste siriane...ma alla fine l'attacco non si fece...gli aggressori si dovettero accontentare dello smantellamento di parte dell'arsenale chimico di Damasco... Come mai?
Tutte le tappe della guerra imperialista fin qui indicate, a partire dal 2001, indicano che la necessità oggettiva di ripartire il globo, principalmente i mercati globali, a proprio vantaggio e a danno dei rivali, spinge per sempre nuove aggressioni, nonostante le contraddizioni che si sviluppano da ognuna di esse e che, anzi, tali contraddizioni, a loro volta, tendono ad essere gestite con nuovo sviluppo del processo di guerra. L'imperialismo, gravato dalle sue contraddizioni insanabili che ne determinano lo stato di crisi, trova sostanza nella guerra e ad essa lega la sua esistenza come sistema economico e politico mondiale. Lo conferma anche il fatto che, dopo il mancato intervento in Siria, si sono sviluppate nuove guerre, di cui diremo in seguito. I motivi di questa mancata ripetizione del copione libico vanno ricercati, dunque, nello specifico determinarsi delle contraddizioni nel caso siriano e nel contesto internazionale in cui esso si iscrive.
La motivazione fondamentale è, infatti, da trovare nella mobilitazione antimperialista delle masse popolari siriane che, nonostante il tentativo di balcanizzazione degli imperialisti e dei regimi sunniti, nonostante l'estrema violenza con cui i ribelli colpirono soprattutto alcune minoranze, come gli alauiti e i cristiani e, in generale, il loro ricorrere al terrorismo reazionario per dividere e spaventare il popolo siriano, serrarono i ranghi in difesa del paese, della sua sovranità, del suo assetto laico e della composizione multireligiosa e multiculturale. Obbiettivamente, ciò tese a coincidere con lo schierarsi in difesa del governo di Assad, anche di coloro che, nel 2011, si erano schierati con la cosiddetta “rivoluzione”, ma vi furono componenti della società siriana che sfidarono l'imperialismo e i suoi agenti reazionari anche autonomamente, come i curdi del Pkk, i quali, nel vuoto di potere determinato dalla guerra civile, presero sotto propria amministrazione le zone a maggioranza curda, iniziando a combattere i ribelli. E va soprattutto detto che questa difesa popolare e patriottica, per il suo valore antimperialista e per la sua natura laica, dopo molti anni di marginalità, ha dato un nuovo ruolo alla sinistra a livello arabo e mediorientale.
Ciò si è verificato laddove, nella difesa della Siria, si sono concretizzate posizioni che superavano l'identitarismo sciita e il nazionalismo baathista nella contrapposizione alla ribellione dei settari sunniti. Posizioni che vedevano nelle controriforme antipopolari, sul piano economico-sociale, portate avanti dal Baath negli ultimi decenni di potere, le radici del malessere di massa su cui la reazione ha preso piede. Queste forze dunque tentavano, in parte riuscendoci in parte no, a trovare una propria autonomia nel fronte antimperialista sul quale, inutile negarlo, esercitava comunque egemonia la direzione baathista e la borghesia nazionale stretta attorno ad Assad. Ma ciò non toglie che i partiti comunisti siriani sono stati fra i protagonisti della mobilitazione contro la guerra per procura diretta dagli imperialisti, basti vedere che nella piazza di Damasco le bandiere rosse erano seconde solo a quelle nazionali, e il gruppo Resistenza Siriana, formato da compagni marxisti e autonomo rispetto all'esercito siriano, ha avuto peso rilevante nella lotta armata contro le bande reazionarie.
È stata questa sinistra che ha contribuito a collocare la lotta del popolo siriano contro l'eversione filoimperialista nel suo giusto alveo regionale, grazie agli storici legami con la lotta di liberazione palestinese e con le formazioni progressiste che la conducono, ma anche al rapporto con le organizzazioni rivoluzionarie attive in Turchia, che Erdogan, cogliendo tale nesso e ovviamente deformandolo in nome della propaganda di guerra, ha iniziato a definire con spregio “agenti di Damasco”. Una sinistra che, nel caso siriano, vede la possibilità di ricollocarsi come centrale nella lotta contro l'imperialismo in Medio Oriente, anche ai danni dell'islamismo politico sunnita, che tende a perdervi quella finta verginità, da duri e puri della lotta anticoloniale, che si era fatto negli ultimi anni (pensiamo solo ai mujahideen dell'Esercito Libero Siriano che ringraziano Israele per i bombardamenti su Damasco) e che comunque continuerà a sbandierare, dal loro punto di vista pure legittimamente anche se spudoratamente, finché qualcuno non gliela strapperà sul campo con la pratica di un'autentica linea rivoluzionaria. Tutto ciò mentre in Europa e in Italia una buona parte del movimento contro la guerra, di solidarietà con la Palestina, delle realtà soggettive di classe e comuniste, faceva apologia della “rivoluzione siriana” non pago dei disastri già manifestatisi appieno con il caso libico!
Leggere gli eventi siriani secondo la lente di Al Jazeera, della Bbc e della Rai e non secondo quanto ci insegna il patrimonio del movimento comunista ed antimperialista, non secondo quanto ci dicevano le stesse forze progressiste in Siria, ha costituito una vera e propria miopia politica se non una disonestà e una chiara volontà di provocazione e compromissione con l'imperialismo. Se la mobilitazione delle masse è stato il fattore fondamentale che ha decretato il fallimento della mobilitazione reazionaria guidata dagli imperialisti e condotta dai loro agenti locali, mettendo in discussione l'intervento diretto della Nato o di chi per essa, il fattore principale è stato il contesto internazionale. Dicevamo di come la Siria costituisse un obbiettivo anche nei termini della disarticolazione dei suoi legami regionali, con l'Iran soprattutto, e globali, con la Russia. Ebbene, questi legami internazionali che si voleva tranciare sono invece stati fatti valere e rovesciati addosso agli aggressori nel momento in cui essi si apprestavano all'intervento.
Pensiamo, sempre nell'estate 2013 quando l'attacco sembrava imminente, alla minaccia di ritorsioni dell'Iran nel Golfo Persico, della Resistenza Libanese e di alcuni gruppi della Resistenza Palestinese nei confronti di Israele e, soprattutto, allo schieramento di navi da guerra russe frapposte tra le coste siriane e le navi inviate dai paesi Nato. Quest'ultimi, oltre a trovarsi senza copertura diplomatica per il veto russo e cinese all'Onu, si sono visti di fronte una catena politica e militare inedita ed eccezionale rispetto ai recenti anni di guerra agli “stati canaglia” - che venivano invece tutti accuratamente e perfettamente isolati prima di procedere all'offensiva bellica – uno schieramento capace potenzialmente di tramutare il conflitto a livello come minimo regionale e come massimo addirittura in guerra mondiale.
Nel 2013, l'anno in cui il pil di Asia, Africa e America Latina superava, per la prima volta, quello di Europa e Stati Uniti, quest'ultime finivano per dover recedere, per la prima volta dalla caduta dell'Urss, rispetto ad un'aggressione pianificata e incombente. Un segno evidente di rapporti di forza mutati a livello mondiale!
Il fattore secondario, ma non per questo poco importante, che ha fatto fallire e arretrare il prospettato intervento in Siria è costituito dalle contraddizioni nel campo degli aggressori, ovvero rispetto ai disegni imperialistici di Usa e potenze della Ue, agli appetiti espansionistici di Turchia e Qatar, al rafforzamento del proprio potere regionale dell'Arabia Saudita, ai timori di accerchiamento da parte di Israele e, infine, alla linea politica di gran parte dei gruppi islamisti che combattono Assad, che va ben oltre la guerra siriana e si estende a tutto il Medio Oriente. Contraddizioni che sono l'una indissolubilmente legata all'altra. Tutti questi poli di contraddizioni divergono sugli interessi che dovrebbero prevalere nel caso Damasco fosse caduta. Per gli Usa e le potenze della Ue, i piani espansionistici di Turchia e Qatar devono rimanere nel solco preordinato di una regione che veda comunque un loro predominio, cioè delle tradizionali potenze imperialiste, altrimenti l'asse Ankara-Doha può costituire un pericolo: si veda ad esempio le spinte della Turchia a mettere le mani sui giacimenti di gas del Mediterraneo Orientale, tra le coste della Palestina occupata, Cipro, Siria e Libano, a danno di Ue e Israele. Quest'ultima, dal canto suo, temeva e teme di trovarsi accerchiata da un campo islamista sunnita che vada dall'Egitto alla Turchia passando per una Siria post-Assad. L'Arabia Saudita, invece, ritiene che il protagonismo di Turchia e Qatar sia una minaccia per il suo predominio, saldamente invece collocato nel solco americano-europeo-sionista, all'interno del mondo arabo. La gran parte dei gruppi islamisti che combattono contro Assad hanno oggettivamente fatto il gioco di tutte queste potenze globali e regionali, ma soggettivamente la gran parte di essi ritiene che la vittoria in Siria sia un passaggio per estendere la guerra santa a tutti gli stati del Medio Oriente.
Queste contraddizioni spiegano, tra le altre cose, un certa diffidenza di alcuni settori dell'imperialismo statunitense nell'armare i ribelli, il proliferare di gruppi di cosiddetti “rivoluzionari” uno in lotta contro l'altro poiché sponsorizzato ognuno da questa o quell'altra potenza, la difficoltà americana nel far entrare i curdi nel fronte anti-Assad visto che Erdogan continuava a perseguirne lo sterminio, per i propri interessi di stabilizzazione interna, delegando le milizie ribelli di Al Nusra e dello Stato Islamico a compierlo e soprattutto il fatto che il Consiglio Nazionale Siriano, cioè il governo ombra costituto dalle forze di opposizione ad Assad e riconosciuto dalle potenze imperialiste, non contasse nulla tra i ribelli islamisti che ne rifiutavano l'impostazione e la collocazione filo-occidentale. A differenza della Siria, in Libia si era di fatto affermata una direzione della ribellione nelle mani del cosiddetto Consiglio Nazionale di Transizione, ma nemmeno questo era stato sufficiente perché sviluppi interni al processo politico che avrebbe dovuto costituire il modello per la Siria, non sfociassero in senso antagonistico rispetto ai piani americani ed europei. Tutti ricordiamo, tanto per fare un esempio, l'ambasciatore statunitense arrostito come uno spiedino dalle milizie di Bengasi, nell'undicesimo anniversario dell'undici settembre.
La prova del nove delle contraddizioni all'interno del fronte degli aggressori non si verificò in Siria ma in Egitto, con il golpe dei militari contro il governo dei Fratelli Mussulmani, che avevano fatto del paese nordafricano uno dei retroterra della guerra per procura contro Assad. Ebbene, i sauditi per certi versi addirittura promossero il golpe, che faceva ritornare l'Egitto ai tempi di Mubarak, restaurando lo status quo dell'area; ugualmente fecero i sionisti, per troncare i legami tra Hamas e il governo di Morsi. Gli americani, che avevano scommesso sui Fratelli Mussulmani come forza in grado di condurre una “rivoluzione passiva” in Egitto e nell'intero Medio Oriente, si ritrovarono spiazzati, mentre Turchia e Qatar, i sostenitori diretti della Fratellanza, si opposero frontalmente al nuovo governo dei militari. E quest'ultimo, quando l'intero pianeta riteneva questioni di giorni l'attacco alla Siria, minacciò, nientedimeno, di chiudere in ritorsione il canale di Suez, consapevole che la caduta di Assad avrebbe dato nuova linfa anche all'opposizione interna dei Fratelli Mussulmani.
Tanti furono e sono gli interessi per muovere guerra alla Siria da paralizzare, scontrandosi l'un l'altro, la sintesi comune che avrebbero dovuto avere nel passaggio dal conflitto per procura all'intervento diretto. In conclusione, parliamo di spartiacque siriano nello sviluppo della tendenza alla guerra imperialista perché gli imperialisti hanno dovuto fermarsi, dopo anni di periodiche aggressioni ed invasioni di paesi, difronte all'eroica Resistenza di un popolo, che ha difeso, difronte ad una sanguinosa e barbara destabilizzazione, sé stesso, la propria libertà ed indipendenza, difendendo così i popoli di tutto il mondo dal procedere del neocolonialismo, costituendo un esempio nel tenere testa alle strategie di balcanizzazione e restaurazione perseguite da Washington e Bruxelles. Parliamo di spartiacque siriano perché da esso, e in particolare dal suo intrecciarsi con le contraddizioni globali tra vecchie e nuove potenze, la tendenza allo sviluppo della guerra imperialista tende a mutare qualitativamente, passando dalla contraddizione tra imperialismo e popoli oppressi a quella tra potenze imperialiste.
In parole concrete, non è un caso che, dalla guerra alla Siria si sia passati alla guerra in Ucraina, poiché la prima aveva evidenziato il peso che la contraddizione con la Russia aveva assunto per Stati Uniti ed Europa, che, con la crisi a Kiev, sono passati a minacciarne direttamente la sfera di influenza, a lambirne e i confini e a tentare di scalfire il primo fattore di forza economica di Mosca, ovvero le posizioni monopolistiche nel campo del gas. Del resto, è probabilmente dalla base russa in Crimea che, nell'estate del 2013, sono partite le navi poste a difesa della Siria. Un'installazione strategica che Mosca è riuscita a salvare, dopo il golpe filoatlantico a Kiev, annettendo la regione alla Federazione Russa, sancendo così il fallimento almeno parziale dell'avanzata di Usa e Ue. Mentre nella Novorossia, continua la guerra tra truppe golpiste e Resistenza popolare.
Parliamo di spartiacque siriano perché tutte le guerre che stanno imperversando nella nazione araba ne sono strettamente legate. Ovviamente, la più direttamente connessa è quella irachena, o meglio il riesplodere della guerra civile e il riproporsi dell'intervento imperialista in un paese che è stato volutamente e scientificamente squartato e distrutto dagli invasori a partire dal 2003. Lo Stato Islamico, forte delle armi e dei finanziamenti ottenuti da imperialisti e petromonarchie, non riuscendo a sfondare verso Damasco, è penetrato come un coltello nel burro in Iraq, puntando verso Baghdad.
Il regime di Al Maliki, “servo di due padroni” cioè Stati Uniti e Iran, con le sue politiche di feroce oppressione contro le masse arabo-sunnite del centro-nord del paese, ha determinato le condizioni perché, a differenza della Siria, buona parte del popolo di queste aree appoggi i fautori del califfato come liberatori. Per gli Stati Uniti e i regimi sunniti si è trattato di utilizzare l'avanzata jihadista per destabilizzare e limitare l'influenza iraniana a Baghdad e per i primi si è riaperta la strada per intervenire militarmente nel paese, con l’obiettivo immediato di difendere la loro piazzaforte settentrionale costituita dalla regione, ricchissima dal punto di vista delle risorse energetiche, del Kurdistan iracheno, bombardando gli islamisti che loro stessi e i loro alleati avevano armato contro Assad fino a qualche mese prima. Ma la questione della Siria è connessa anche al conflitto in Palestina.
Con la Resistenza di Gaza è venuto meno, almeno temporaneamente, il progetto imperialista di normalizzare Hamas, includendolo in un'unione nazionale con Abu Mazen, che permetta a quest'ultimo di reggere di fatto le fila di entrambi i governi palestinesi, al fine di portarli all'accettazione e imposizione ai palestinesi di quel “bantustato”, che secondo la Casa Bianca dovrebbe rappresentare la soluzione- liquidazione della questione palestinese. Progetto che era stato anticipato dalla posizione assunta dalla direzione politica di Hamas sulla guerra civile in Siria, schieratosi con i ribelli perchè sempre più influenzato dalla visione e dagli interessi regionali del Qatar.
E infine, la Siria è legata alla Libia, altro fronte di guerra oggi all'interno della nazione araba, che ne rappresenta il potenziale sviluppo disastroso in caso di rovesciamento del governo centrale. Ma la Siria ha rappresentato anche lo “spartiacque” all'interno di quel po' che sussiste di movimento contro la guerra, di solidarietà internazionalista, all'interno delle soggettività di classe e comuniste, fra chi ha portato avanti una coerente posizione antimperialista, schierandosi con un popolo – prima che con il governo di Assad – che ha resistito e sta resistendo ad una guerra condotto per procura e alle minacce di intervento, e chi, in vari gradi e in varie misure, ha oggettivamente preso una posizione che rientrava negli schemi imperialisti, cosciente o non cosciente che fosse, riesumando la tesi pacifista dell'equidistanza – ignavia che finisce concretamente ad essere vicinanza agli aggressori e lontananza dagli aggrediti – o, peggio ancora, facendo apologia anche fino all'ultimo della cosiddetta rivoluzione siriana.
A nostro avviso ciò deriva anche dalla cancellazione di un patrimonio, quello dell'analisi e della prospettiva di classe nella lotta antimperialista e internazionalista, che la borghesia monopolista e i suoi apparati tentano in ogni maniera di disperdere e distruggere, come hanno fatto con il patrimonio del movimento operaio e antifascista. Non è un caso, infatti, che l'egemonia guerrafondaia nella società si accompagni a quella reazionaria e antiproletaria: i popoli oppressi e il proletariato internazionale hanno un nemico comune, il sistema imperialista, e insieme possono o soccombervi o combattere e vincere. Ricordiamoci che la vittoria del popolo vietnamita sugli occupanti americani fu possibile non solo grazie ai due milioni di martiri caduti nella lotta, ma anche grazie al movimento di solidarietà internazionalista all'interno degli Usa e in Europa Occidentale, che coincise con l'avanzamento più forte dei rapporti di forza del proletariato rispetto alla borghesia dal secondo dopoguerra ad oggi.
Ecco perché dobbiamo costruire il movimento contro la guerra imperialista nel nostro paese, che non può avere altro contenuto che la solidarietà di classe incondizionata a tutti i popoli aggrediti e resistenti, facendo emergere e sostenendo in particolare le posizioni più avanzate, in senso rivoluzionario e proletario, che sono parte di questi processi di resistenza. Anche a partire dalla solidarietà al popolo palestinese che, grazie alla valore della sua lotta, rimane un terreno di mobilitazione esistente oggi in Italia.
Dobbiamo contribuire a rafforzare la lotta contro il Muos in Sicilia, che fonde l'opposizione alla guerra con la difesa delle condizioni di vita delle masse; dobbiamo sforzarci di portare l'antimperialismo e l'internazionalismo in ogni lotta di massa.
Dobbiamo analizzare e dibattere sulla situazione mondiale, a partire anche dal ruolo e dalla lotta all'imperialismo italiano e ai suoi interessi, per avere una visione chiara delle cose presenti e dell'ipoteca che il sistema capitalista in crisi sta mettendo sull'umanità, attraverso lo sviluppo della tendenza alla guerra sul piano mondiale.
Costruire il movimento contro la guerra imperialista, schierarsi con i popoli che resistono!
Contribuire alla lotta contro il Muos in Sicilia!
Trasformare la guerra imperialista dei padroni in lotta di liberazione dei popoli e in lotta diclasse dei proletari!
Collettivo Tazebao - per la propaganda comunista
collettivo.tazebao@gmail.com
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