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A proposito di soluzioni politico-istituzionali del conflitto in Palestina

Il presente articolo è costituito da materiali già pubblicati dall’autore nel bollettino dell’Associazione di solidarietà internazionale “Rete Radiè Resch” nel dicembre 2009 e su altri periodici

Per affrontare la questione del tipo di assetto politico-istituzionale da dare al territorio palestinese è necessario fare alcune premesse:

  1. Nel territorio della Palestina mandataria esiste oggi uno Stato unico, lo Stato d’Israele, basato su una dottrina di esclusione/inclusione, la dottrina sionista, sulla quale si è creato un sistema di apartheid che condiziona ogni aspetto della vita quotidiana sia degli esclusi, i palestinesi, sia degli inclusi, gli israeliani, e di cui il muro di separazione è solo la manifestazione più apparente;

     

  2. la questione dell’assetto politico-istituzionale è appannaggio di pochi intellettuali che vivono per lo più fuori del territorio palestinese. In altre parole non è una questione all’ordine del giorno del reale dibattito politico israeliano e palestinese. Il dibattito politico verte esclusivamente sulla possibilità di creare uno Stato per i palestinesi. La maggioranza degli israeliani sostiene l’attuale sistema politico dello Stato unico dell’apartheid, mentre la maggioranza dei palestinesi sembra convinta che la liberazione risieda nella costituzione di uno “Stato” separato. Ciò fa anteporre la questione di una eventuale spartizione del territorio a quella ben più importante dei diritti fondamentali dell’uomo, fa dimenticare che lo “Stato” ha ragione di essere soltanto se è garante dei diritti, se è “Stato di diritto”. I palestinesi sono stati trascinati sul terreno insidioso della spartizione e dell’esclusivismo - che è alla base della dottrina sionista - e chiamati a rispondere a questioni marginali volte a eludere il problema reale: quello dell’occupazione della loro terra, l’espulsione di gran parte di loro, la dispersione della società, la cancellazione della Palestina. L'establishment israeliano sa benissimo che l'idea dello Stato è corrosiva del concetto di "liberazione". A questo è servita negli anni e a questo serve oggi. È questa una delle ragioni per la quali si continua a propagandare l’idea della spartizione e della divisone su basi etnico-confessionali delle popolazioni che  vivono oggi in Palestina. Resta tuttavia il fatto che la stragrande maggioranza dei palestinesi oggi vorrebbe uno Stato separato da quello israeliano;
     
  3. la Palestina rappresenta oggi l'unico caso irrisolto di colonialismo. L'esaurirsi dei processi coloniali si è svolto secondo due tipologie:
    • sterminio delle popolazioni autoctone e loro sostituzione con popolazioni provenienti, in una prima fase, dall'Europa;
    • formazione di Stati nazionali, formalmente indipendenti, secondo un modello imposto dalla potenza coloniale.

In Palestina il processo coloniale è ancora in fase di realizzazione. Da una parte la potenza occupante non è riuscita a sterminare la popolazione autoctona e a sostituirla in modo definitivo con un’altra popolazione.

Dall'altra, la popolazione autoctona non è stata in grado di conservare il proprio territorio e raggiungere l'indipendenza formale. Ciò ha determinato una situazione con alcuni tratti simili a quella del Sudafrica o dell'ex Rhodesia. I coloni si sono resi indipendenti dalla madrepatria europea e hanno in parte ucciso, in parte scacciato e in parte sottomesso la popolazione indigena.

Il centro imperiale – la Gran Bretagna prima, gli Stati Uniti poi - ha sostenuto il distacco dalla madrepatria e legalizzato lo Stato coloniale. Israele è l'unico Stato al mondo che per nascere ha avuto bisogno di un particolare meccanismo legale escogitato dal centro imperiale che per applicarlo l'ha affidato alla nascente ONU. La richiesta avanzata da molti Stati di mettere all'ordine del giorno la questione dell'indipendenza della Palestina non fu nemmeno presa in considerazione e con un complicatissimo raggiro dello Statuto si è arrivati ad adottare un “Piano di spartizione” del territorio palestinese in base al quale si raccomandava la creazione di due Stati in Palestina. Così è stato creato il consenso per l'impianto dello Stato coloniale e negato il diritto della popolazione autoctona al proprio territorio e quindi a un proprio Stato indipendente.

Ogni volta che il processo coloniale è in crisi e palesa la propria illegittimità, si ricorre al marchingegno della illusoria spartizione per trarre d'impiccio lo Stato coloniale. Con l'idea di creare uno Stato “per gli ebrei” in Palestina – idea sostenuta e attuata dall'élite imperiale britannica per molteplici ragioni che in questo spazio non si possono affrontare -, ci si è posti il problema di come eliminare la popolazione autoctona residua, di troppo ai fini del processo che si stava per innescare. Una idea che implica necessariamente l'esclusione dei non ebrei, cioè degli abitanti autoctoni. Il passaggio all'atto pratico ebbe inizio con l'occupazione britannica della Palestina, nel 1917. 

Nei primi anni dell'occupazione, il ministro delle colonie Winston Churchill pensava che si potesse spostare tutta la popolazione palestinese in Transgiordania. È con questa motivazione che viene creato l'emirato di Transgiordania. Nel 1937 una commissione d'inchiesta del governo di Londra – la Commissione Peel – raccomandava la spartizione della Palestina “tra le due comunità”, e lo “scambio” di territori e popolazioni. Si comincia così a individuare nel meccanismo di spartizione e di “scambio di popolazione”, a volte esplicito, ma più spesso taciuto, lo strumento per attuare il progetto coloniale ed escludere gli abitanti indigeni. I diversi piani di spartizione proposti servivano solo a creare lo spazio territoriale allo Stato “per gli ebrei”. I confini scaturiti dalla grande pulizia etnica del 1947-49 – nella terminologia sionista “guerra d'indipendenza” - non sono quelli improbabili del piano di spartizione dell'ONU del novembre 1947, ma sono quelli stabiliti in precedenza, nel luglio 1946, a Parigi dalla Conferenza anglo-americana che esamina la questione della Palestina. Contemporaneamente anche l’Esecutivo dell’Agenzia Ebraica si riunisce a Parigi e adotta una risoluzione che comunica ai governi di Londra e di Washington e che prevede la formazione di “uno Stato Ebraico [per gli ebrei] in una parte adeguata del territorio palestinese”. La proposta dell’Agenzia Ebraica prefigura curiosamente le frontiere israeliane del 1949. E per giustificare l’inclusione del deserto del Naqab (cambierà poi nome in Neghev) nel futuro Stato “per gli ebrei”, nell’area vengono fondati simultaneamente undici nuovi insediamenti che si aggiungono agli altri dieci fondati allo scopo durante la guerra. Come dire che le potenze che un anno dopo avrebbero inventato il marchingegno, successivamente fatto passare all'ONU come piano di spartizione, avevano già previsto che il piano doveva servire a creare uno Stato e non l'altro.

Forse serve ricordare che nel 22% del territorio della Palestina mandataria non raggiunto dagli eserciti israeliani nel 1947-49 - successivamente avrebbe preso i nomi di Cisgiordania e Striscia di Gaza - non esisteva nessun insediamento, cioè base militare, sionista. Quando nel 1967 l'esercito israeliano occupa questi ultimi territori, tenta una nuova pulizia etnica. Una nuova ondata di profughi -molti già profughi del 1947-49 -, si riversa in Transgiordania e nel Sinai. I nuovi profughi provenienti dalla Cisgiordania sono 550.000, pari a metà della popolazione, e 60.000 sono coloro che sono costretti a fuggire dalla striscia di  Gaza. Tuttavia la pulizia etnica fallisce. Si tenta allora un'annessione strisciante del territorio a cominciare da Gerusalemme. Dai terreni requisiti si espellono gli abitanti che diventano “profughi interni” e si creano insediamenti “per [soli] ebrei”. In altre parole, lo Stato “per gli ebrei” avanza incessantemente sul territorio del fantomatico Stato palestinese. Gli indigeni (i palestinesi) rimasti nel territorio sono chiusi in aree sempre più ristrette, in attesa dell'occasione propizia per espellerli.

La sollevazione popolare del 1987-88, nota come intifada, da una parte ha reso evidente l'impossibilità dell'annessione di Cisgiordania e Gaza e la non praticabilità, almeno nel breve periodo, di un'espulsione di massa dei palestinesi. Dall'altra ha creato un oggettivo, fino ad allora impensabile, interesse comune tra il governo israeliano e la leadership dell'OLP, preoccupati entrambi dalla crescente capacità di mobilitazione della popolazione e dall'emergere nei territori occupati di figure di leader giovani non controllati dall'organizzazione palestinese. L'azione di massa ha messo in crisi, almeno per un breve periodo, l'assioma degli ex-movimenti di guerriglia che formavano l'OLP sull'imprescindibilità della “lotta armata per la liberazione della Palestina”, cosa che non praticavano più da oltre 10 anni. Il timore della dirigenza palestinese di perdere prestigio, cioè spazio politico, o per dirlo più chiaramente, potere, l'ha spinta a firmare il riconoscimento della legittimità dello Stato “per gli ebrei” in cambio della promessa di un regime d'autonomia in un non ben precisato spazio territoriale.

In queste condizioni, cioè davanti al fallimento del progetto israeliano di annessione dei territori occupati e del fallimento dell'OLP-Fatah di “liberare la Palestina”, si tornò all'idea, sempre pronta all'uso in caso di bisogna, della spartizione del territorio palestinese tra due Stati. La firma degli accordi di Oslo ha comportato la liquidazione dell'azione di massa, unica carta in mano ai palestinesi, e ha permesso al governo israeliano, sotto la coltre fumogena del “processo di pace”, di raddoppiare gli insediamenti e i coloni in Cisgiordania, di rosicchiare altri pezzi di territorio e di ridurre le aree ancora abitate da palestinesi a veri campi di concentramento. I casi di Gaza o della Valle del Giordano sono ben evidenti. Ciò è stato possibile attraverso la creazione della cosiddetta “autorità nazionale palestinese”, pensata come mero strumento dell'occupazione e divenuta perno del meccanismo che permette di perpetuare l'occupazione stessa.

Del resto è una vecchia pratica delle potenze coloniali quella dello smembramento dei territori conquistati e la creazione di élite locali con cospicui interessi legati ai centri di potere dell'impero. Ciò costituisce elemento essenziale per il controllo delle popolazioni sottomesse. Tale politica trova la sua massima espressione nell'intervento militare diretto, così come ad esempio avviene oggi in Iraq. Il cosiddetto “processo di pace” dovrebbe portare alla creazione di uno Stato palestinese accanto a quello israeliano. Ma su quale territorio? Metà del territorio cisgiordano è stata requisito dagli israeliani, sia per gli insediamenti sia per usi militari, e altre fette consistenti vengono inglobate dal muro di separazione. Così è riemerso di nuovo il discorso dello “scambio di territorio”. Il che, tradotto in parole chiare, significa una cosa soltanto: “espulsione”. In questa chiave va letta la politica del nuovo-vecchio governo israeliano di  “ebraicizzazione”. La creazione di uno Stato palestinese, su un territorio “di scambio”, può diventare lo strumento per legalizzare un'ulteriore espulsione di palestinesi. Uno Stato del genere è destinato a durare il tempo necessario per accogliere quei palestinesi che Israele vorrà espellere sotto la copertura dello “scambio di popolazione”. Lo smantellamento di qualche insediamento in Cisgiordania diverrebbe il pretesto per “trasferire” verso l'effimero “Stato palestinese” gli "arabi israeliani" cioè i palestinesi non espulsi nel 1947-49 dai territori della prima conquista israeliana.

Oggi nel territorio della Palestina storica, cioè in quella fascia di terra tra il fiume Giordano e la costa del Mediterraneo, vivono più di cinque milioni di ebrei, di cui molti sono nati nel paese, e poco più di cinque milioni di palestinesi. L'intero territorio è occupato dallo Stato “per gli ebrei” che pratica una politica di discriminazione razziale – della quale non si parla -, accompagnata da ripetute stragi e tentativi di genocidio, nei confronti dei palestinesi per il solo fatto che da molti secoli non sono più ebrei, ma diventati cristiani o musulmani, e perché il vissuto storico della popolazione autoctona palestinese contrasta con l'interpretazione che l'Europa si è data della storia della Palestina. Ma soprattutto perché il compito affidato allo Stato coloniale dai centri del potere “imperiale” richiede l'uso continuo della forza nei confronti degli indigeni, sottomessi, direttamente nel caso dei palestinesi, o indirettamente nel caso di alcuni paesi arabi.

Non è forse superfluo ricordare che l'impianto violento dello Stato d'Israele in Palestina – ed è una violenza diretta non solo contro la popolazione palestinese autoctona, ma anche contro gli ebrei importati che hanno dovuto cambiare nazionalità e identità per essere in linea con l'impostazione coloniale-sionista di “nazione” – sia parte della politica di frammentazione del mondo arabo-islamico. Fin a quando continuerà a essere funzionale agli interessi imperiali e al sub-imperialismo israeliano, costituirà un'arma puntata contro le popolazioni arabe, a guardia di interessi strategici e economici e dell'assetto geopolitico regionale. Nella prospettiva coloniale e imperiale, il controllo del cosiddetto “Medio Oriente” - essenzialmente delle risorse petrolifere - è imprescindibile per esercitare l'egemonia su scala planetaria. Non va a vantaggio degli ebrei israeliani continuare a servire gli interessi imperiali, perché nel momento in cui questi vengono meno, cessa ogni sostegno allo “Stato per gli ebrei”. Lo Stato d'Israele non è stato creato per amore degli ebrei, ma contro gli ebrei. È invece interesse comune di palestinesi e israeliani cercare di convivere pacificamente e civilmente in uno Stato di diritto, cioè in uno Stato che garantisca diritti uguali per tutti i suoi cittadini e senza nessuna discriminazione di qualsiasi genere, sia razziale, sia religiosa o culturale.

La prospettiva di una convivenza in uno Stato di diritto è più praticabile e più realistica rispetto a quella della guerra permanente. Le ultime guerre scatenate da Israele sono state ancora più brutali delle precedenti, ma più fallimentari. Sia in Libano nel 2006, sia a Gaza nel 2008-09, la macchina da guerra israeliana è stata  semplicemente sconfitta dalla resistenza di una popolazione disarmata. In conclusione va sottolineato che la dottrina separatista è una vera trappola. Invece della liberazione e della riconciliazione di palestinesi e israeliani, vengono propagandate idee di spartizione, separazione e segregazione che alimentano i conflitti invece di spegnerli e che creano situazioni difficili da superare e dalle conseguenze imprevedibili su un piano più generale, quale la costruzione del “muro di separazione” che fa dei palestinesi, cioè degli abitanti originari di quella che fu la terra santa, un corpo estraneo, delimitato e separato, da rigettare ed espellere alla prima occasione. Il muro ha effetti nefasti non solo su israeliani e palestinesi ma sul concetto stesso di convivenza civile su scala mondiale.

Prima dello Stato e di ogni altra questione, i palestinesi hanno bisogno di diritti: diritto alla vita di ciascun individuo, diritto all’integrità fisica - in contrasto con la legislazione israeliana vigente -, diritto alla dimora nel proprio territorio - che può chiamarsi Israele o quel che si vuole -, diritto alla proprietà della terra - che ovviamente contrasta con la legge israeliana sulla “terra ebraica” e sulla “proprietà degli assenti”-, diritto alla casa - e non vedersela demolire -, diritto alla libera circolazione nel proprio paese Palestina/Israele, al lavoro, allo studio, diritti civili e diritti politici. Ogni discorso che tende a deviare l’attenzione dai diritti fondamentali è ingannevole, compreso quello sui confini e sui bantustan.

Wasim Dahmash
 

Informazioni sul Fronte Palestina

Per sviluppare un lavoro di classe nel sostegno alla lotta di liberazione della Palestina e degli altri popoli oppressi e aggrediti dall'imperialismo, oltre alle sterili e dannose concezioni del pacifismo e dell'equidistanza tra aggressori e aggrediti che hanno in gran parte contribuito ad affossare il movimento contro la guerra nel nostro paese negli ultimi anni, si è deciso di fondare l'organismo nazionale Fronte Palestina.

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