A proposito di bufale, tarallucci e vino... ovvero “una terra senza popolo per un popolo senza terra”
A 70 anni dall’occupazione della Palestina, progetto ordito a partire dagli ultimi anni del XIX secolo,
qualcosa appare chiara e vera per quanto, razionalmente, possa sembrare incredibile
La narrazione sionista ha attraversato circa 120 anni fondamentalmente in maniera impunita nonostante molte risoluzioni ONU lasciate cadere nel vuoto. Solo negli ultimi decenni, ad opera anche di molti autori ebrei, si è iniziato a svelare l’occupazione, le centinaia di villaggi distrutti e quella che poi correttamente è stata definita la pulizia etnica in Palestina. Ma occorre ribadire che queste verità faticano a superare la cortina fumogena fatta di censura da parte della stragrande maggioranza dei media mondiali, tutti sotto il pugno di ferro della narrazione sionista (in Italia i tre maggiori quotidiani quali La Stampa, Repubblica e Corriere della Sera sono nelle mani di altrettante dirigenze sioniste). I maggiori partiti di destra come di “sinistra” sono anch’essi al servizio del sionismo (recentemente Renzi segretario del PD e Presidente del Consiglio ha vergognosamente dichiarato che le nostre radici ed il nostro futuro sono in Israele, oltre ad essersi attorniato di persone con cittadinanza italo-israeliana), inoltre vi è una parte che vive sotto il ricatto dell’antisemitismo, lo spauracchio infelice e idiota con cui spesso sparano addosso a chiunque denunci semplicemente i crimini contro l’umanità che Israele commette tutti i giorni.
La narrazione sionista, con la complicità anche di agenti palestinesi, ha guidato in maniera lineare tutto il confronto tra sionisti e palestinesi, fino a convogliare dentro i binari della loro narrazione tutta la solidarietà verso la Palestina, anche quella parte più genuina, facendo credere che una soluzione fosse possibile attraverso le trattative, attraverso i vari contatti tra dirigenti sionisti e palestinesi, magari con la “mediazione” statunitense o europea.
E badate bene, nonostante i 120 anni trascorsi, nonostante sia sotto gli occhi di tutti che nessun passo avanti sia stato fatto, quella narrazione è lungi dall’essere mandata al diavolo come dovrebbe, tutti continuano a seguirla come e peggio di una chimera (idea senza fondamento, sogno vano, fantasticheria strana, utopia: le sue speranze non sono che vane).
Posiamo i piedi per terra e vediamo di trovare una sola frase, in questi 120 anni, che possa far pensare al fatto che l’idea sionista preveda uno stato palestinese, piccolo, medio o grande che sia. Solo pochi mesi fa Netaniahu ha chiaramente ribadito che non permetterà la nascita di uno stato palestinese.
Andiamo a ritroso e vediamo se nel passato c’è qualche accenno allo stato per i palestinesi. Il terrorista Sharon poco prima di entrare in un salutare coma, a chi gli chiedeva quali fossero i confini di Israele rispondeva che se ne sarebbe parlato da lì a 50 anni, non prima.
Facciamo un salto ancora indietro e troviamo queste perle di disponibilità allo stato per i palestinesi:
«Dobbiamo usare il terrore, l'assassinio, l'intimidazione, la confisca delle terre e l'eliminazione di ogni servizio sociale per liberare la Galilea dalla sua popolazione araba». David Ben-Gurion, Maggio 1948, agli ufficiali dello Stato Maggiore. Da: Ben-Gurion, A Biography, by Michael Ben-Zohar, Delacorte, New York 1978.
«Non esiste una cosa come il popolo palestinese. Non è come se noi siamo venuti e li abbiamo cacciati e preso il loro paese. Essi non esistono». Golda Meir, Primo ministro d'Israele, dichiarazione al The Sunday Times, 15 giugno 1969.
«La divisione della Palestina è illegale. Non sarà mai riconosciuta. Gerusalemme è e sarà per sempre la nostra capitale. Eretz Israel verrà ricostruito per il popolo d'Israele. Tutta quanto. E per sempre». Menachem Begin, il giorno dopo il voto all'ONU sulla divisione della Palestina.
«E' dovere dei dirigenti d’Israele spiegare all’opinione pubblica, chiaramente e coraggiosamente, un certo numero di fatti che col tempo sono stati dimenticati. Il primo di questi è che non c'è sionismo, colonizzazione, o Stato Ebraico senza lo sradicamento degli arabi e l'espropriazione delle loro terre». Ariel Sharon, Ministro degli esteri d’Israele, parlando ad una riunione di militanti del partito di estrema destra Tsomet, Agenzia France Presse, 15 novembre 1998.
E ci si limita a riportare le dichiarazioni più “gentili”, dichiarazioni rilasciate da chiunque, ma dai massimi dirigenti sionisti di ieri e di oggi.
Davanti a queste terribili ma concrete e veritiere dichiarazioni, come si fa a non comprendere che loro NON permetteranno MAI uno stato palestinese? Lo dichiarano un giorno si e l’altro pure, che Israele è uno stato per soli ebrei. E quanto sta succedendo negli ultimi anni lo conferma decisamente in maniera chiara: “uno stato ebraico per soli ebrei”. Ed a questo dato non si oppone nessuno in Israele anzi, la continua elezione di leader sempre più di destra, alcuni dei quali non considerano nemmeno i palestinesi esseri umani o si rifiutano di riconoscergli una nazione, non lascia ampi margini di ottimismo.
Loro sanno che non avrebbero potuto realizzare il loro progetto da un giorno all’altro, ma a quel giorno si sta arrivando e si arriverà se non si inizia a destrutturare la narrazione sionista e con essa mandare alle ortiche tutti i traditori all’interno della dirigenza palestinese, a partire dal golpista Abu Mazen e ogni altro leader che si oppone all’unità del popolo palestinese contro l’occupazione.
Che fare? Direbbe qualcuno che nel momento giusto seppe che fare.
Innanzitutto i palestinesi hanno bisogno di nuovi leader, di nuovi intellettuali (non è un caso che i sionisti hanno fatto una strage di intellettuali palestinesi così come di onesti dirigenti palestinesi, o anche di attivisti come Vittorio Arrigoni o Juliano Mer Khamis, lasciando illesi quelli che in qualche modo accettano di “trattare”). Occorre ricomporre un nuovo pensiero politico e di resistenza, che sappia costruire unità al fine di porre nuove analisi e strategie alternative che portino ad una nuova azione politica. L’attuale sistema politico palestinese non tiene conto in nessun modo del popolo, cerca di comprarlo dove può, offrendogli dei privilegi, miseri, ma che nella disperazione di nessuna prospettiva diventano allettanti. Provate a pensare ai ruoli che ricoprono i dirigenti palestinesi nell’attuale sistema politico: un leader cui è scaduto il mandato e nessuno pensa di sostituirlo. Questo modo di stare nella realtà palestinese coinvolge tutti, destra, centro, ma anche sinistra, purtroppo. Come detto serve una nuova classe dirigente che per prima cosa si liberi, senza se e senza ma, delle catene degli accordi di Oslo, ovvero rigettare quella schiavitù e oppressione che prosegue da decenni.
Rilanciare in maniera forte, costante e chiara il BDS contro l’occupante, chiamando a raccolta tutte le forze che dicono di sostenere i palestinesi. Quindi che d’ora in poi si utilizzino nuove e chiare parole d’ordine, chiamando le cose con il vero nome, l’occupazione è occupazione, e da che mondo e mondo all’occupazione si risponde con la RESISTENZA, ovviamente declinandola in molte forme di cui i palestinesi spesso si son mostrati maestri.
La solidarietà italiana cosa può fare per sostenere la giusta legittima lotta di liberazione palestinese?
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Svelare e contrastare la narrazione sionista
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Sostenere la Resistenza
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Costruire solidarietà verso i prigionieri palestinesi
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Sostenere ed ampliare il BDS
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Costruire relazioni politiche con i palestinesi
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Non collaborare con progetti che normalizzano l’occupazione
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Rigettare il turismo “politico” (i palestinesi hanno le qualità per fare un lavoro di controinformazione, aiutiamoli nel recupero delle risorse).
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Lottare contro i sionisti nel nostro paese
p.s. Che Israele non abbia intenzione di fermarsi agli attuali confini, anche se non segnati, lo dimostra, ad esempio, il fatto che è sempre attivo nel tentare di disgregare i paesi arabi vicini, come Siria e Libano. È di questi giorni la notizia, ovviamente censurata dai giornali italiani, che un nuovo progetto sionista è riemerso contro il Libano e la sua integrità territoriale. Come riportato da alcuni politici libanesi e pubblicato in questi giorni dal quotidiano di Beirut Assafir, Israele sta cercando di convincere la comunità internazionale della mancanza di una documentazione “certa” relativa al confine meridionale del Libano. Durante un’interpellanza in sede ONU un diplomatico israeliano ha dichiarato che “non esistono dei confini terresti riconosciuti tra Israele ed il Libano, visto che lo stato libanese non ha mai fornito una documentazione relativa alla sua linea di confine meridionale mai veramente marcata”.
Questo il modo di agire dei sionisti, incuranti di seguire una qualsiasi legge, loro si sentono fuori dalla legge, perché sanno che il loro progetto della Grande Israele non è solo umanamente schifoso, ma del tutto illegale.
Proponiamo in allegato un documento che riteniamo molto adeguato alla riflessione proposta, per ragione di spazio riportiamo alcune “immagini”, ma rimandiamo alla lettura integrale, attraverso il sito: http://www.palestinarossa.it/?q=it/content/aic/ong-nella-valle-del-giordano
“L'assistenza scalza la lotta politica palestinese, normalizza la situazione di occupazione, e rinvia una soluzione permanente”. Le ONG internazionali stanno lavorando in maniera estensiva nei villaggi palestinesi, nei paesi e nelle città delle aree A* e B*, mentre i palestinesi dell'area C* (inclusa la maggior parte della Valle del Giordano) sono sistematicamente esclusi dall'accesso all'acqua, alla terra, all'istruzione, alla sanità e all'energia. […] queste ONG stanno lavorando entro le leggi militari imposte sulla Cisgiordania dalle forze di occupazione.
Mentre Oslo iniziò il processo di normalizzazione dell'occupazione, le maggiori ONG internazionali stanno continuando questo processo lavorando entro i confini imposti loro dallo Stato di Israele, e concentrando la maggior parte del loro lavoro nelle aree A e B.
Le ONG “stanno lavorando qui dall'invasione della potenza occupante, e niente è cambiato. Funzionalmente, loro alleggeriscono i governi dalle loro obbligazioni verso i propri popoli. Le ONG spesso non riconoscono gli Stati e le loro politiche economiche, come le maggiori cause di povertà e sofferenza.
Nel caso della Palestina, molte ONG non si concentrano necessariamente sulla critica dell'occupazione israeliana, ma piuttosto tendono ad allenare i palestinesi a muoversi e servire una nuova società civile post-Oslo, caratterizzata dalla partecipazione dei palestinesi al capitalismo del libero mercato.
Chiunque conduca ricerche sulle ONG e sulle donazioni in questa area, sarà costretto ad ammettere che le donazioni intese a giungere in quest'area risultano, negli ultimi 15 anni, milioni. Ma questi soldi vengono incanalati in progetti che, in maniera conveniente, evitano la questione dell'occupazione israeliana. Una ONG viene garantita di mezzo milione di euro dall'UE per prevenire l'estinzione dei gufi nella Valle del Giordano, mentre la gente non ha acqua potabile da bere.
Poiché queste organizzazioni ricevono finanziamenti da diverse fonti, loro devono proteggere i propri interessi monetari non valicando certi limiti e restando incollati allo status quo. Infatti, le organizzazioni che criticano le politiche di Israele rischiano di essere deprivate dei finanziamenti e penalizzate, e questa è una eventualità ben conosciuta. Come il caso di INCITE – Donne di Colore Contro la Violenza. Sul loro sito web, loro spiegano che iniziarono a ricevere finanziamenti dalla Fondazione Ford nel 2000. Poi, “in maniera del tutto inaspettata il 30 luglio 2004, la Fondazione Ford spedì un'altra lettera, spiegando che aveva rivalutato la propria decisione a causa del sostegno alla lotta di liberazione palestinese da parte dell'organizzazione. L'amministrazione militare israeliana non si assume più la responsabilità di garantire il benessere della gente dell'area C. Loro possono anche smettere di sorvegliare tali aree palestinesi, in quanto adesso ci sono le ONG che lo fanno per loro”.
Questo è evidente per il fatto che “loro hanno case fantastiche, salari spaziali e uffici enormi. Loro hanno altissimi costi di esercizio, finanziati dalle fondazioni – in teoria in nome del popolo palestinese. Le tasse che pagano ammontano al 22% dei loro budget e loro implementano il loro lavoro mediante ditte esterne – pagando alti salari agli 'specialisti' ed ai 'consulenti' internazionali”. Ciò che resta alla fine per la gente, è niente.
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