Edward Said

Un sasso nello stagno della solidarietà verso la Palestina

Dallo scorso 24 aprile una nuova lotta all'interno delle prigioni israeliane [1] rinvigorisce la resistenza palestinese, proprio mentre la leadership delle due maggiori organizzazioni palestinesi si misurano nell'ennesimo tentativo di conseguire un accordo di unità [2].

Persone, collettivi, comitati, associazioni, partiti e realtà sensibili alla tutela dei diritti umani nel sentirsi vicini e solidali al popolo palestinese riconoscono di fatto che la Palestina è sotto occupazione. Lasciando da parte le vili posizioni di equidistanza, possiamo riconoscere ed affermare che rispetto all'occupazione ed alla violazione dei diritti fondamentali di un popolo ci si riconosce, insieme e reciprocamente, dalla stessa parte. Diverso è invece l'approccio su come si esprime la solidarietà: da un lato chi pensa di sostenere i palestinesi da un punto di vista umanitario, dall'altro chi dal punto di vista politico (ma anche all'interno di queste due categorie le soggettività sono svariate e spesso incongruenti).

L’Accordo di Gaza del 2014 fa di Hamas uno strumento di Israele?

L’accordo fra le due principali organizzazioni ‘governative’ palestinesi, Fatah e Hamas (che ormai ha quasi del tutto abbandonato l’Asse della Resistenza), è stato salutato con favore da molti analisti (fra cui molti vicini alla causa palestinese) tranne rare eccezioni. Purtroppo, anche questa volta, c’è un solco profondo fra la realtà e le illusioni. Di conseguenza è bene chiarire, sia pur sinteticamente, i risvolti di questo matrimonio che, per quanto mi riguarda, non credo durerà a lungo. Cominciamo intanto con il contestualizzare gli eventi.

Prima di entrare nel merito dell’accordo è bene ricordare che entrambe le organizzazioni vengono da un momento difficile che ha visto erodere sensibilmente il loro consenso all’interno della società palestinese.

Fatah ha visto calare sensibilmente il suo prestigio fin dagli Accordi di Oslo del 1993. La corrente laica e nazionalista della Resistenza palestinese, nel momento in cui ha formalmente riconosciuto lo Stato di Israele, ha cominciato gradualmente a perdere credibilità non solo agli occhi degli stessi palestinesi ma anche di tutti quei movimenti che nel mondo si battono contro le politiche imperialiste e neocolonialiste. Il suo leader, Yasser Arafat,  che in molti sospettano essere stato assassinato dal servizio segreto israeliano, non è riuscito a risollevare le sorti di questa organizzazione che ormai da molto tempo si limita a giustapporsi allo stato israeliano che tuttora occupa la Cisgiordania.

La non partecipazione come strategia palestinese?

Sono state proposte numerose soluzioni alla crisi decennale della dirigenza palestinese, come la riforma dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) dall'interno tramite l'elezione del Consiglio Nazionale Palestinese, oppure l'ingresso di Hamas e degli altri gruppi islamisti all'interno del Comitato Esecutivo dell'OLP. Comunque la crisi dell'attuale dirigenza, come quella di tutti i partiti politici di destra e di sinistra, è ormai così profondamente radicata che l'unica soluzione potrebbe essere la "non partecipazione" a questo sistema politico palestinese.

Cos'è la "non partecipazione"? Come definida da Mesu Zavarsadeh e da Donald Morton in un contesto differente in "Teoria come Resistenza, "le opzioni diventano o l'essere 'convinti' della legittimità del lavorare all'interno del sistema, e quindi accettare le strutture esistenti, oppure ritenere che non ci sia spazio per un mutamento radicale." [1] Il problema del lavorare all'interno di un sistema che ha perso legittimità è che ciò che è possibile viene eclissato da ciò che è pragmatico. Per mettere in risalto ciò che è possibile per il popolo palestinese dobbiamo prima cessare di partecipare alle strutture politiche illegittime ed inefficaci. Altrimenti continueremo ad avere una serie di opzioni molto limitata, ognuna peggio dell'altra e nessuna che sia in grado di realizzare i diritti e l'autodeterminazione palestinese. Lasciatemi subito dire che non è un appello per cessare l'attivismo per l'autodeterminazione, la libertà, la giustizia e l'uguaglianza - lungi da ciò ne discuteremo dopo una piccola disamina sulla crisi della destra e della sinistra.

"La lotta palestinese non è per l’indipendenza, è per la liberazione" - Intervista con il dr. Haidar Eid

David Letwin (ebrei per il diritto al ritorno dei palestinesi) intervista il dottor Haidar Eid, Professore Associato, Dipartimento di Letteratura Inglese, Università di Al-Aqsa, Striscia di Gaza, Palestina. Il Dr. Eid è anche un sostenitore dello stato unico e un membro della Campagna Palestinese per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele (PACBI).

David Letwin: Molti attivisti palestinesi in questo paese hanno messo il loro impegno principale nel contrapporsi all’occupazione del 1967 e, più recentemente, all'assedio israeliano di Gaza. Ma tu e altri palestinesi sostenete che il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi è al centro della lotta per la giustizia. Perché? 

Haidar Eid: l’espropriazione sionista e l'oppressione dei palestinesi non è iniziata nel 1967. Risale al 1948, quando più di 750.000 palestinesi furono cacciati dai villaggi e dalle città in Palestina e furono deportati verso i paesi vicini: Giordania, Libano, Siria, Gaza e Cisgiordania per far posto ad uno "stato ebraico" dell’apartheid. Poi, nel 1967, Israele occupò la Striscia di Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est, che rappresentano il restante venti per cento della Palestina storica. 

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